Stasera in prima tv su Rete 4 c’è Monuments Men, il film scritto, diretto e interpretato da George Clooney. È la storia, ispirata alla realtà, della squadra di artisti, architetti, storici dell’arte che, durante la Seconda guerra mondiale, recuperarono le opere di cui Hitler stava facendo razzia, accecato dal sogno – lui, artista frustrato respinto in gioventù dall’Accademia di Vienna – di costruire un museo del Führer.
Monuments Men comincia con Frank Stokes (Clooney, in un personaggio ispirato al conservatore di Harvard George Stout) che spiega al presidente Roosevelt la necessità della missione, apportando gli esempi – plauso all’onestà intellettuale di Clooney – dell’Ultima cena e dall’abbazia di Montecassino, sottoposte al bombardamento non dei nazisti ma degli Alleati.
Di lì il film dipana una storia che sposa nobiltà del messaggio – il valore della cultura – ed esigenze spettacolari. Meno teso e impegnato di altre regie di Clooney (Good Night and Good Luck, Le idi di marzo), Monuments Men punta sul paradosso d’una vicenda insieme epica e picaresca. C’è un che di naturalmente comico in degli studiosi di mezza età spediti sul fronte, soprattutto se a vestirne i panni sono Bill Murray o John Goodman, che non posseggono certo il physique du rôle dell’eroe. Ma Clooney regista sa giostrarsi tra tono divertente e serio, quest’ultimo assicurato da Matt Damon, Cate Blanchett attivista della resistenza, Hugh Bonneville (Downtown Abbey) ubriacone in cerca di redenzione.
Monuments Men è un cocktail con dentro cinema bellico vecchio stile (eroismo, sacrificio, netta separazione tra buoni e cattivi), un po’ di Ocean’s Eleven (i duetti Clooney-Damon), dosi massicce de La grande fuga (dramma più ottimismo più ironia). Manca all’appello, nonostante le premesse, Indiana Jones. Perché le imprese dell’archeologo-avventuriero tendono troppo al farsesco. E invece Monuments Men, pur puntando allo spettacolo, al suo messaggio ci tiene.
E lo recapita Stokes, quando dice che “noi combattiamo per la nostra cultura, il nostro stile di vita. Puoi spazzare via un’intera generazione di persone, bruciare le loro case, ma in qualche modo torneranno. Però se distruggi le loro opere, la loro storia, allora è come se non fossero mai esistiti”. Questo discorso sull’arte come collante identitario, serbatoio di memoria collettiva, Stokes lo fa mentre prova le ricetrasmittenti. Non sta discutendo coi suoi uomini. È come se stesse alla radio, parlando a un intero popolo dei valori che lo rendono una comunità.
L’arte, aggiunge Monuments Men, è anche un codice universale, che mette in comunicazione persone diverse. L’arte tutta, alta e bassa, colta e popolare. Certo, la squadra di Stokes va a caccia dei capolavori di Michelangelo o van Eyck. Ma nel momento del faccia a faccia con un militare tedesco, col timore di essere costretti a sparare, la tensione si scioglie solo quando il nazista, a digiuno d’inglese, dice “John Wayne”. Perché anche il cinema di massa è arte. E l’arte è la lingua franca che permette di parlarci. E salvarci, letteralmente, la vita. Un film che non lesina retorica e stereotipi, certo, eppure piacevole.
Monuments Men di George Clooney, prima tv stasera su Rete 4 alle 21,15