Dopo quasi trent’anni Martin Scorsese è riuscito a realizzare Silence, tratto dal romanzo omonimo di Shūsaku Endō, che il vescovo di New York gli mise tra le mani alla fine degli anni Ottanta, dopo aver visto il controverso L’ultima tentazione di Cristo. Il progetto poi prese forma grazie all’interessamento di Vittorio Cecchi Gori all’inizio degli anni Novanta. Scorsese e Jay Cocks (sceneggiatore anche de L’età dell’innocenza e Gangs of New York) si misero a lavorare a una prima stesura dello script, ma le infinite traversie, giudiziarie e finanziarie, del produttore italiano trascinarono con sé anche Silence. Che solo molti anni dopo, diverse riscritture e la fedeltà al sogno iniziale tanto del regista quanto, sorprendentemente, di Vittorio Cecchi Gori, è diventato realtà. E così, realizzato finalmente Silence, Martin Scorsese si è potuto porre di fronte al silenzio di Dio.
Martin Scorsese: la violenza e il sacro
La vicenda produttiva di Silence, insomma, è già la storia di un’ossessione. Che si inscrive perfettamente all’interno della più generale ossessione dell’ex seminarista Martin Scorsese per la spiritualità, inseguita attraverso film che riflettono appassionatamente in forma dubitativa su Dio, il peccato, la grazia. Quasi sempre, tranne che nell’Ultima tentazione di Cristo, Kundun e adesso Silence, Martin Scorsese ha condotto il suo discorso sulla fede utilizzando il filtro del mondo che conosce meglio, la comunità cattolica italoamericana di New York, con le sue regole tribali e vite sempre sul crinale tra legalità e illegalità.
Luoghi e persone per cui la religione non costituisce un tema letterario, ma la sostanza contorta dell’esistenza quotidiana. Perché, come dichiarava programmaticamente già Mean Streets, “I peccati non si scontano in Chiesa, si scontano per le strade, si scontano a casa: il resto è una balla e lo sanno tutti”. E allora è sulla strada che Scorsese incontra figure che risalgono il loro concretissimo calvario: il Charlie-Harvey Keitel di Mean Streets (che cerca di salvare l’amico Johnny Boy-Robert De Niro perché è tormentato dal “Sono io forse il custode di mio fratello?” della Genesi), il Travis Bickle di Taxi Driver, che persegue il suo sogno di purezza in un percorso tra sacrificio e violenza, o il Jake LaMotta di Toro scatenato, che espia i propri peccati punendo se stesso e tutti coloro che gli sono intorno e non sa trovare la via verso la pietà.
Sempre, nel cinema di Martin Scorsese – anche nel più recente The Departed, in cui il regista si confronta con un milieu parzialmente diverso, la comunità cattolica irlandese di Boston – spiritualità e violenza sono inestricabilmente annodate. Perché, come ha notato il padre Antonio Spadaro in una bellissima intervista recente al regista (consultabile qui), la sua ispirazione è il risultato di “un miscuglio di legami di sangue, violenza e sacro”, riflesso delle sue esperienze giovanili. Il sangue quindi diventa il tramite vistoso che lega il sacro all’orrore della violenza, da intendersi come due facce di una stessa medaglia. Da qui quindi la brutalità disturbante e mai fine a se stessa del suo cinema, nel quale la sofferenza è il volto dietro cui si stagliano misteri che riguardano la dimensione spirituale e la domanda di Dio dell’uomo.
Silence: cercando la Grazia
Violenza e fede, misticismo e carni che sanguinano (non dimentichiamo il Gesù de L’ultima tentazione di Cristo, che estrae il proprio cuore e lo mostra ai discepoli) costituiscono anche l’architrave di Silence. Il film racconta la storia di due missionari gesuiti portoghesi, padre Rodrigues (Andrew Garfield) e padre Garupe (Adam Driver, smagrito, di impressionante intensità), che nel 1640 si recano in Giappone alla ricerca del loro mentore, padre Ferreira (Liam Neeson), che si dice abbia fatto atto di apostasia, ripudiando la fede cristiana. Nel Giappone feudale dell’epoca era in corso una durissima persecuzione della religione portata dai missionari. Ai tanti convertiti si chiedeva di abiurare il nuovo credo, eseguendo l’atto simbolico di calpestare un’immagine sacra o addirittura sputarvi sopra. Chi si rifiutava era sottoposto a torture che spesso conducevano alla morte.
Questo è il Giappone (ricreato a Taiwan) con cui entrano in contatto in Silence i padri Rodrigues e Garupe, che dopo un po’ si separano. Un paese in cui la fedeltà al nuovo credo diventa un atto di coraggio estremo, che conduce quasi sempre a sofferenze atroci, inumane, distribuite dall’inquisitore Inoue (interpretato dal comico giapponese Issey Ogata). Di fronte alle torture – di straziante bellezza la sequenza dei contadini crocifissi tra le onde -, cui padre Rodrigues assiste impotente, la sua fede da seminario ovviamente vacilla. “Perché le loro prove devono essere così terribili? Perché quando guardo nel mio cuore le risposte che do a loro sembrano così deboli?”, chiede il religioso a un Dio che resta inopinatamente in silenzio.
Silence racconta un altro calvario: Rodrigues finché può resta saldo nella fede, ma le sue certezze franano davanti a una realtà angosciante di dolori insensati. Il missionario è posto di fronte ad accadimenti e persone che gli fanno smarrire le coordinate interpretative del mondo: dal Kichijiro (Yōsuke Kubozuka), suo personale Giuda, che lo vende ai giapponesi chiedendogli però costantemente perdono e assoluzione, sino a padre Ferreira, il mentore che ritrova mutato, non più cattolico, dopo aver attraversato l’odissea della sofferenza propria e altrui.
In Silence, ancora una volta, proprio il dolore della carne è la strada maestra che conduce all’acquisizione di una più alta consapevolezza spirituale. Solo quando Rodrigues perde la fiducia nel suo Dio e in una fede vissuta con superbia (al punto che specchiandosi in un ruscello vede il volto di Cristo sovrapporsi al proprio), quando sente il dolore degli altri ed è disposto a sacrificarsi per loro – giungendo ad un atto estremo per salvarli -, soltanto allora riesce a trovare, in una forma purissima ed enigmatica, la vera grazia. Così, forse, è proprio nel silenzio di Dio che si accede al divino e si trova una risposta alle inquietudini. Anche se è impossibile farne parola, e tutto resta in interiore homine.
Il regista newyorkese ha realizzato un film difficile, che in quasi tre ore di durata prende di petto temi ostici, con una severità che non lascia appigli alle abitudini usuali dello spettatore. Martin Scorsese con Silence si pone di fronte al silenzio di Dio. Un’operazione decisamente ambiziosa, che il più cinefilo dei registi contemporanei arricchisce di suggestioni e influssi, dal Cuore di tenebra conradiano riletto da Coppola a Kenji Mizoguchi. Silence è una sorte di meteorite, o di fossile, sbucato fuori da un altro luogo e un altro tempo, appartenente a un’era nella quale verso il cinema si riponeva la fiducia destinata a un’arte capace di scandagliare le questioni fondamentali dell’uomo contemporaneo. Un cinema precedente all’epoca dell’infinito intrattenimento che viviamo oggi. Silence può essere anche imperfetto, mortifero nella monotonia ossessiva della sua ispirazione tematica. Ma è un film che, in maniera commovente, forse fuori tempo massimo, crede ancora al cinema come arte adulta. Di questo dobbiamo essere grati a Martin Scorsese.