Sully, Clint Eastwood e il fattore umano

La storia vera dell'ammaraggio di un aereo nelle acque del fiume Hudson si trasforma nelle mani del grande regista americano in un racconto morale sull'etica del lavoro ben fatto. Il film di un ottuagenario che si ostina a considerare l'uomo, e non le macchine, la misura di tutte le cose. Protagonista un Tom Hanks ammirevole.

Sully

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Nominiamolo subito: Donald Trump. Bene, e adesso togliamolo di mezzo. Perché per quanto i detrattori continuino a citarlo per screditare Clint Eastwood, il neopresidente americano con l’attore e notevolissimo regista c’entra ben poco. E non ha alcun senso tirarlo in ballo per Sully, 35esimo film diretto da Clint Eastwood che porta in dote, a 86 anni, un’ammirevole freschezza artistica (non diciamo giovinezza, perché è proprio la maturità della vecchiaia il segreto del suo cinema dell’ultimo quindicennio).

Il film racconta l’incredibile storia vera di Chesley Sullenberger detto Sully (Tom Hanks), pilota di linea che il 15 gennaio 2009, insieme al suo secondo Jeff Skiles (Aaron Eckhart), fa ammarare un aereo in avaria appena partito da New York nelle gelide acque del fiume Hudson, salvando tutti i 155 passeggeri. Una manovra che esula da qualunque protocollo di volo (“Tutto è senza precedenti, fino a che non accade la prima volta“, dice il pilota), frutto dell’esperienza lunga quarant’anni di Sully. Che diventa istantaneamente l’eroe di quello che viene ribattezzato il “miracolo dell’Hudson”, la buona notizia riguardante un aereo che gli Stati Uniti aspettavano da anni dopo l’11 settembre (e l’immagine della tragedia delle Torri gemelle torna automaticamente alla memoria di qualunque spettatore non appena si vede l’aereo destreggiarsi tra i grattacieli di Manhattan; ed è anche l’incubo che ricorre nei sogni di un Sully comprensibilmente traumatizzato).

Più restia a salutare Sully come nuovo eroe americano è la National Transportation Safety Board, l’autorità per la sicurezza dei trasporti che apre un’inchiesta sull’azzardata manovra del pilota, e compie numerose simulazioni di volo per capire se sarebbe stato possibile un normale atterraggio in aeroporto invece del rischioso ammaraggio.

Sully non punta sull’alta temperatura spettacolare della tragedia mancata. Ci sono, certo, gli elementi codificati del genere catastrofico alla Airport, dal racconto delle microstorie dei passeggeri all’abnegazione del personale di bordo. Ma la ricostruzione dell’incidente è come raffreddata, perché diventa l’elemento di prova oggettiva in quella sorta di processo cui viene sottoposto Sully. Nel quale, come dice il pilota durante la testimonianza alla Commissione d’inchiesta, il tema in gioco è il “fattore umano”: quell’insondabile pezzo dell’ingranaggio fatto di carne, sangue, nervi e cervello che è difficile far rientrare nella logica riduttiva di numeri, protocolli, algoritmi.

Attenzione, Eastwood non è un manicheo. Tantomeno lo è Sully, che neanche per un istante contesta la legittimità dell’inchiesta e l’utilità delle ricostruzioni al simulatore – anzi, in più di un momento di fronte alle perfette manovre al computer le certezze circa le sue scelte vacillano. Durante l’audizione però, Sully si rivolge con pacata fermezza alla commissione dicendo loro: “Avete eliminato ogni straccio di umanità da quelle simulazioni“. Da un lato c’è la finzione, quella simulazione resa liscia e perfetta grazie all’asportazione di ogni elemento concreto, dell’imponderabilità dei fatti e del fattore umano. Dall’altra c’è la realtà, quell’enigma pieno di dettagli infinitesimali al centro dei quali resta l’uomo e la sua capacità di decifrarli. Che è fatta di competenza, esperienza, istinto. E anche paura.

Sully fa pensare a un altro personaggio del cinema di Clint Eastwood, il sergente Gunny Highway, che ha come massima la frase “Improvvisare, adattarsi, raggiungere lo scopo”, e detesta i superiori ammalati di regolamento che non sanno niente della vita reale. Sully è un gentiluomo, non ha nulla dell’attaccabrighe Gunny: ma entrambi, e con loro Eastwood, condividono l’idea profondamente umanista che, nel migliore dei mondi possibili, l’uomo dovrebbe tornare a essere la misura di tutte le cose e il fulcro della realtà. Una realtà da giudicare secondo intelligenza e sensibilità umane, e non attraverso princìpi astratti scollati dagli individui che li incarnano.

Sully è sconcertato anche nel vedere la sua immagine in tv, ospite del David Letterman Show, che gli sembra finta, irreale. Come irreale – e immorale – è per il copilota Skiles che, nell’albergo a cinque stelle in cui sono ospitati durante le audizioni della commissione, una barretta di cioccolato possa costare cinque dollari. Sully racconta anche, dal punto di vista dell’ottuagenario Eastwood – che appone esplicitamente la sua firma di uomo anziano, mostrando il manifesto di Gran Torino, suo film testamento sulla vecchiaia – lo scollamento tra la realtà e la finzione di un mondo filtrato e ricompattato dentro una simulazione mediatica.

A quel simulacro di mondo Sully oppone la concretezza etica del mestiere ben fatto e l’importanza del lavoro di squadra (a chi lo saluta come l’autore d’un miracolo, il pilota ricorda l’intervento tempestivo dei soccorritori, essenziale per l’incolumità dei passeggeri). Princìpi basilari, quasi elementari. Come elementare, di semplice ma innegabile buon senso, è il bigliettino uscito dal biscotto della fortuna che Sully conserva nel portafoglio: “Un ritardo è meglio di un disastro”.

Sully racconta valori essenziali con una tersa classicità, incarnati da un Tom Hanks ammirevole, costantemente sottotraccia, un protagonista quasi invisibile, di orgoglioso riserbo e zero pose eroiche. Guardando questo film viene subito da pensare ad Howard Hawks, il regista dei più bei film sul mondo dell’aviazione (Avventurieri dell’aria, Arcipelago in fiamme). Il suo era un cinema laconico e pragmatico, che ha sempre propugnato gli stessi valori richiamati da Clint Eastwood in Sully: la professionalità e la forza del gruppo. Cui va aggiunta, per entrambi, l’importanza dell’ironia, grimaldello fondamentale per affrontare la durezza della vita. E così il film sulla catastrofe mancata si chiude, come è giusto, con una battuta.