Nella storia di Edward Snowden si materializzano le paure relative agli Stati Uniti che Oliver Stone ha spesso inoculato nei suoi film ad alta temperatura civile. Il suo cinema ha costantemente vigilato sui complotti perpetrati ai danni del semplice cittadino: siano essi la guerra del Vietnam voluta per opache ragioni politiche – di cui fanno le spese patrioti come il Ron Kovic di Nato il quattro di luglio, che torna a casa in sedia a rotelle – o la madre di tutte le macchinazioni, l’omicidio Kennedy di JFK, culmine delle ossessioni cospirazioniste di Stone e suo vertice stilistico, per la capacità di creare un racconto aggrovigliato, che traduce perfettamente la sua visione a doppio fondo della storia americana.
Oliver Stone non poteva che identificarsi con Snowden, l’analista della National Security Agency e della Cia che nel 2013 con le sue sconvolgenti dichiarazioni pubbliche ha svelato il Datagate, piano di attacco alla privacy perpetrato dal governo americano attraverso il controllo invasivo delle comunicazioni della gente comune – telefonate, mail, sms, videochat – cui, come ricorda il film, hanno offerto il loro contributo i big della rete, Microsoft, Facebook, Google, Yahoo, permettendo l’accesso ai propri database.
Snowden (il protagonista è Joseph Gordon-Levitt) utilizza come cornice della vicenda la storia del documentario premio Oscar Citizenfour, partendo dall’incontro a Hong Kong, dove l’analista s’era rifugiato, con la regista Laura Poitras (Melissa Leo) e i giornalisti Glenn Greenwald (Zachary Quinto) e Ewen MacAskill (Tom Wilkinson) che raccolsero e pubblicarono sul Guardian le sue dirompenti rivelazioni.
Da lì il film di Stone ripercorre le tappe salienti dei dieci anni precedenti della vita del protagonista: l’arruolamento e il congedo dall’esercito – Snowden è un patriota e un conservatore -, gli anni alla Nsa e nella Cia, dove si distingue per il suo straordinario talento informatico, la progressiva presa di consapevolezza delle storture di un sistema di sorveglianza indiscriminato – “tutto questo non riguarda il terrorismo, ma il controllo della società e dell’economia, e l’unica cosa che stai realmente proteggendo è la supremazia del tuo governo” -, la scelta di confessare tutto.
Stavolta pero, diversamente da JFK, il timore per un tema così ostico spinge Oliver Stone a impiegare in Snowden uno stile piano, con un montaggio lineare e un linguaggio da cui traspare tutta la preoccupazione didattica del regista nel rendere i passaggi più tecnici della vicenda. Da qui anche l’impiego dei generi, che aiutano lo spettatore a orientarsi, dal thriller alla storia d’amore – fin troppo presente – con la compagna Lindsay (Shailene Woodley), cui si aggiungono il grottesco nella descrizione di Corbin (Rhys Ifans), mefistofelico mentore di Snowden, e persino a tratti la satira da documentario alla Michael Moore.
Il risultato è un film in parte soffocato dalle sue comprensibili preoccupazioni, che perde per strada complessità e sfumature. Così paradossalmente Snowden, nonostante il sentito impegno di Gordon-Levitt, finisce per essere la storia non di un individuo in carne e ossa, ma di un simbolo usato da Oliver Stone per esporre le tesi che ha a cuore da una vita.