Gli spietati, stasera in tv c’è il western premio Oscar di Clint Eastwood

Alle 21 su Iris c'è il film che ha consacrato Eastwood come grande regista. Un western denso come una tragedia e disilluso come un noir. Un'opera sorprendente, in equilibrio tra la tradizione dei classici di Ford e Hawks e il western revisionista degli anni Settanta.

Gli spietati

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Gli spietati (Unforgiven, 1992) è un film fondamentale nella carriera di Clint Eastwood, che grazie a quest’opera venne finalmente riconosciuto dall’establishment dell’industria cinematografica statunitense come un “autore”, e non solo un divo redditizio, visti i due Oscar ottenuti per il miglior film e regia nel 1992. L’investitura non riguarda il solo Eastwood, dato che quella fu la prima volta — se si esclude un pioneristico Oscar a Cimarron, un film del 1931 — che a un western venne assegnato il più alto riconoscimento, il premio per il miglior film dell’anno.

È singolare come l’Academy abbia a lungo sottovalutato il genere per eccellenza del cinema americano, quello in cui con maggiore chiarezza si trovano sintetizzati i valori fondativi dell’identità statunitense — l’ideologia della frontiera, la teoria del destino manifesto, il mito della natura selvaggia, il processo di civilizzazione — e le caratteristiche di base dell’uomo americano — il coraggio, l’individualismo caparbio, l’ottimismo e la perenne tensione al miglioramento. Ma l’Academy ha finito per trattarlo come un genere minore, parente stretto dei film d’avventura, in quanto tale incapace di veicolare quei grandi temi sociali o esistenziali che da sempre costituiscono il marchio delle opere capaci di trionfare agli Oscar.

E invece il western è un genere adulto. In grado tanto di raccontare la “nascita di una nazione” quanto di mostrare la sfaccettata e non poco contorta psicologia del maschio americano (basti pensare al compatto gruppo di film di Anthony Mann con James Stewart degli anni Cinquanta, o a Sentieri selvaggi di John Ford). Capace pure di mettere in luce le crepe di quella storia idealizzata di progresso, trattando gli aspetti rapaci della conquista — il razzismo, l’ambiguità della violenza, la spoliazione della minoranza indiana — e demistificando una narrazione incrostata di menzogne (Il piccolo grande uomo di Arthur Penn o Buffalo Bill e gli indiani di Robert Altman, per fare qualche esempio).

Per porre rimedio alla storica marginalizzazione del western da parte dell’Academy, non poteva esserci una scelta simbolicamente più indovinata de Gli spietati. Perché il quarto (o quinto, se si considera anche l’atipico Bronco Billy) western diretto da Clint Eastwood è una ideale sintesi tra i valori stabiliti dalla tradizione del genere (i classici di John Ford e Howard Hawks) e il processo di smascheramento cui quegli stessi valori sono stati sottoposti con decisione a partire dagli anni Sessanta. Un film che filtra con intelligenza e sensibilità l’intera storia del genere, trasformandosi in una sorta di sintetica enciclopedia del western. Sempre, però, un’enciclopedia secondo Clint Eastwood, segnata da una cifra indiscutibilmente personale.

Gli spietati racconta la storia di William Munny (lo stesso Eastwood), pacifico agricoltore di mezza età, vedovo con due figli. Eppure quest’uomo dall’aria dimessa è stato il più grande fuorilegge del suo tempo, di crudeltà leggendaria, redento dall’incontro con la donna, ormai scomparsa, che è stata sua moglie. Il giovane pistolero Kid (Jaimz Woolvett), conoscendolo per fama, lo invita ad andare con lui a compiere una missione: uccidere due uomini su cui un gruppo di prostituite ha messo una taglia di mille dollari, perché hanno sfregiato una delle ragazze. Sebbene Munny abbia abiurato il proprio passato, accetta la proposta per i soldi. A loro si aggiunge il suo vecchio sodale Ned (Morgan Freeman), anch’egli trasformatosi in un tranquillo contadino. Ma ad attenderli nella cittadina di Big Whiskey c’è l’inflessibile sceriffo Little Bill Daggett (Gene Hackman), che amministra la legge con gusto quasi sadico per scoraggiare i cacciatori di taglie (il primo a farne le spese è Bob l’inglese [Richard Harris], pistolero britannico con biografo al seguito).

Gli spietati dosa con sapienza la mitologia del personaggio del cowboy. Eastwood regista ci mostra implacabilmente il protagonista da lui stesso interpretato rotolare nel fango tra i maiali, o in difficoltà mentre cerca di salire a cavallo, privandolo così in partenza di qualunque alone leggendario. Lo stesso vale per i compagni d’avventura: Ned, che nel momento della verità capirà quanto gli anni passati a fare il fattore ne abbiano fiaccato lo spirito; e Kid che, sebbene spavaldo, è solo un ragazzino affetto da gravi problemi di vista. Ancora più esemplare è il personaggio di Bob l’inglese: il giornalista al suo seguito ne immortala le gesta con tono lirico ed epicizzante, ma i suoi racconti sono tutti fasulli, e quel pistolero che s’atteggia coi suoi quarti di nobiltà europei è poco più d’un fanfarone.

Però Gli spietati non prende alcuna piega satirica: è anzi un film serissimo, che ha il passo d’una tragedia mescolata al noir (la pioggia battente, i colori cupissimi), nella quale tutto ruota intorno alla violenza e al significato della morte inflitta agli altri. Un’opera luttuosa che ripensa l’esistenza come avvicinamento angosciante alla fine; nella quale, sotto il profilo sia tematico che visivo (la fotografia satura e notturna) vengono stabilite le coordinate definitive dei capolavori del cinema a venire di Eastwood (Mystic River, Million Dollar Baby, Gran Torino).

Gli spietati è anche un film che, nel modo in cui tratta donne e minoranze, testimonia la capacità di intercettare e filtrare sia la storia più recente del genere che la sensibilità politica del proprio tempo. Il Ned di Morgan Freeman è uno dei pochi grandi ruoli destinati a un uomo di colore che si ricordi nella storia del western (prima dei film diretti da neri come Posse di Mario Van Peebles, del 1993). E le donne, sebbene relegate in uno dei due ruoli che anche il western tradizionale consentiva loro – prostitute, l’altro era l’angelo del focolare – dimostrano uno spirito d’iniziativa assolutamente inedito, che le porta, contro la legge che come indennizzo per le violenze subite riconosce loro soltanto dei cavalli, a perseguire una propria idea di giustizia, che ritiene invece la morte quale risarcimento adeguato.

Il rapporto tra legge e giustizia è uno dei grandi temi de Gli spietati: e la legge è impersonata da Little Bill, un uomo che si reputa incarnazione della rettitudine ma che – come il protagonista di un altro western di Eastwood, Lo straniero dagli occhi di ghiaccio — della giustizia non possiede senso del limite e saggezza, amministrando l’ordine con sinistra ferocia. Infatti è il peggiore dei carpentieri, e la casa che sta costruendo fa letteralmente, quando piove, acqua da tutte le parti: la metafora non potrebbe essere più chiara. Ma lo scontro tra Munny e Little Bill non sarà quello del bene contro il male, perché un personaggio controverso come Munny non può rappresentare in alcun modo il bene. E nemmeno, con attitudine ancora una volta demistificante, il duello tra i due potrà seguire le regole cavalleresche del codice d’onore del western classico.

Però il finale recupera un tratto costitutivo del genere tradizionale, la natura inscafibile dell’eroe che ristabilisce in qualche modo l’ordine. Chiaramente ogni dettaglio del film — i colori saturi, l’aggressività esaltata, la violenza esibita e immotivata — instilla ambiguità e interrogativi in questo finale che non dà alcun sollievo allo spettatore. Eppure ne Gli spietati, qualcosa dell’impalcatura di fondo del western dei Ford e degli Hawks resta. Per cui si può essere d’accordo con le parole di uno dei massimi studiosi del genere, Edward Buscombe, autore di una acuta monografia sul film: “Gli spietati è un film realizzato nella piena consapevolezza di tutto ciò che è stato detto contro il western — il suo razzismo, il sessismo, l’ossessione per la violenza. Il film negozia in modo sottile e scaltro una conciliazione con i critici del western, tuttavia riesce a preservare quasi completamente intatti i fondamentali del genere”. Ed è proprio la capacità di Eastwood di porsi nel punto di confluenza tra la classicità e la sua messa in crisi la cifra più caratteristica di questo grande, consapevole, problematico cineasta.