Non è più tempo di uccidere i propri genitori, come faceva il protagonista de I pugni in tasca nella scena madre di tutto il cinema di Marco Bellocchio. Però, anche se l’odio assassino s’è placato, le irresolutezze che ogni figlio si porta addosso sono impigliate in quel pesante cordone che lega visceralmente, soprattutto, al fantasma materno.
Ed è la madre il fantasma da cui tutto si dipana in Fai bei sogni, il romanzo bestseller di Massimo Gramellini cui s’ispira (“liberamente tratto”) la trasposizione cinematografica di Bellocchio. Il libro autobiografico racconta del bambino Massimo cui viene detta una bugia pietosa, cioè che la mamma è morta per un “infarto fulminante”, mentre la realtà è più scabrosa. Lui, come oscuramente consapevole della menzogna, non accetta quella fine, sin dal funerale, quando chiede di aprire la bara per vedere se lì c’è davvero la madre. Una volta adulto Massimo (Valerio Mastandrea), nonostante il crescente successo professionale resta bloccato nel lutto non elaborato, somatizzato nelle crisi di panico e sintetizzato dall’immagine del corridoio della casa di famiglia in cui, in vista d’un trasloco, accatasta cose su cose tra cui non riesce a mettere ordine.
Nel grumo di sofferenza ostinata, negatrice di realtà di Fai bei sogni, il regista s’è riconosciuto. Molto meno, probabilmente, nel resto: perché Gramellini ha uno stile che tende ad ammorbidire, smussare, mentre Bellocchio ha una cifra aspra, per niente accomodante. Per cui la storia di Gramellini è come postillata dai commenti talvolta arguti di Bellocchio. Esemplare l’episodio in cui il protagonista scrive una lettera aperta sul giornale che parla accoratamente d’amore materno, e il regista mostra una madre (Piera Degli Esposti) che ribatte a occhio asciutto: “Cosa dovremmo fare adesso, abbracciarci?”.
Bellocchio è guardingo con la dolcezza di Fai bei sogni. Ma è anche disposto a farsene sorprendere, accettando, cosa per lui non usuale, di raccontare un sentimento trasparente tra un figlio e una madre che col suo piccolo si abbraccia, balla e canta (e la felicità si colora di tinte sorprendentemente vintage, le melodie di Modugno, la tv di Raffaella Carrà, Canzonissima e Belfagor). Eppure la gioia materna resta fugace, resa opaca da un velo di tristezza che è quello del suo male, tradotto nei colori spenti, malinconici della fotografia di Daniele Ciprì.
Fai bei sogni soffre dell’ingarbugliato dialogo tra romanzo e film. Un racconto diseguale, dal ritmo binario: due preti, due abbracci (quello salvifico della compagna Bérénice Bejo), due balli, il rosso e il blu del titolo. E soprattutto i due tempi della storia: la parte più convincente del Massimo bambino e ragazzino, che narra un amore incondizionato prima e una ricerca di surrogati affettivi poi (la tata che rifiuta l’abbraccio); e quella del Massimo adulto, più monocorde, nonostante gli sforzi d’un inedito Mastandrea sabaudo e pagine indovinate (il confronto con un enigmatico imprenditore esemplato su Raul Gardini). Non è un caso che alla fine il racconto voglia chiudersi sulla felicità primigenia di madre e bambino: come per salvaguardare un sentimento che la realtà spezzerà ineluttabilmente.