Grey’s Anatomy 13×08 è il regalo che i telespettatori più fedeli meritavano e aspettavano da tempo. Quando pensi che tutto sommato, dopo un decennio ed oltre 250 episodi, dopo aver sviscerato decine di argomenti e giocato con tutti gli intrecci possibili, ci si debba accontentare di quel poco che una storia può ancora offrire con tutti i limiti che un invecchiamento fisiologico porta con sé, ecco che arriva la sorpresa capace di alleviare quel pessimismo. Perché se razionalmente continui a pensare che una serie abbia fatto il suo corso e possa continuare solo a vivere di rendita, proprio perché non te l’aspetti, nel momento in cui ritrovi quell’essenza che era il marchio di fabbrica di un tempo, ti stupisce e ti consola al tempo stesso. E ti fa pensare che sì, certamente avrà anche già dato il meglio di sé, ma Grey’s Anatomy può ancora ritrovare a tratti quella grandezza che lo rende un unicum nel suo genere.
La forza di quest’episodio è il meraviglioso intreccio tra il focus sulla medicina, con un caso che coinvolge alcuni dei medici del Grey Sloan Memorial Hospital e li spinge ad interrogarsi su come svolgono la lor professione, e il vissuto di ciascuno di loro.
The Room Where It Happens, sin dal principio, si presenta come un episodio speciale: in primis per la colonna sonora classicheggiante che lo accompagna, poi per la scelta di girarlo in un’unica unità spazio-temporale, la sala operatoria in cui viene soccorso un uomo coinvolto in un incidente. L’uso del ralenty, accompagnato dalla musica, riporta il pubblico alla bellezza di osservare le azioni dei singoli come fossero una danza di un corpo di ballo (espediente già utilizzato più volte in passato in Grey’s Anatomy e di sicuro impatto sul pubblico), anche grazie ad una regia molto più accurata del solito che restituisce il dettaglio di ogni movimento e allo stesso tempo vi imprime un’enorme fluidità.
La prima metà dell’episodio è decisamente dominata da Richard Webber, che entrato in sala per soccorrere un paziente gravissimo ed affiancare i suoi irritati e scontrosi medici al tavolo operatorio (Meredith e Owen, con la specializzanda Stephanie) impone loro la necessità di identificare la vittima, dargli un nome anche fosse solo di fantasia e immaginare la sua storia, perché per loro non sia solo un ammasso di organi da trattare nel modo più veloce ed efficace possibile. Webber arriva perfino a darle il nome di una donna, a raccontare la sua storia di violoncellista e madre, mentre il corpo del paziente è chiaramente di un uomo. L’ex capo non è affatto impazzito, sta solo cercando un modo per riportare i suoi medici alla realtà, ovvero renderli coscienti che stanno operando una persona con una famiglia, un vissuto e mille motivi per cui voler continuare a vivere.
Una posizione che suscita sensazioni contrastanti e porta lo spettatore a farsi delle domande non semplici: davvero vorrei che i medici che mi operano nel momento in cui il rischio la vita sapessero tutto di me o preferirei essere trattata asetticamente come un corpo che in quel momento ha solo bisogno di essere meccanicamente riparato senza altre distrazioni da parte di chi opera? Probabilmente la risposta istintiva è per la seconda opzione, anche se verso la fine dell’episodio quello che sembra un delirio da parte di Webber trova il suo senso profondo: per un medico conoscere il suo paziente fa parte del pacchetto di informazioni necessarie a salvarlo tanto quanto le conoscenze mediche. Soprattutto quando sembra che non ci sia niente da fare e la motivazione del chirurgo può contare tanto quando le sue abilità.
Su impulso di Webber quel paziente di finisce per diventare qualcuno di importante nella mente di ciascuno di loro e risveglia i rispettivi sensi di colpa. Se per l’ex capo è la madre Gail, morta di tumore al pancreas quando lui era solo un ragazzino, per Owen è la sua sorellina Megan dispersa anni prima in un incidente aereo, col cadavere mai ritrovato: bellissima e con un caratterino tutto pepe (“Mi piace, avresti dovuto sposare lei così avresti avuto dei figli” dice di Meredith con un’irriverenza che fa subito centro), finalmente questo fantasma che aleggia su Grey’s Anatomy dalla scorsa stagione si è palesato nella mente di Hunt, mostrandosi da subito accattivante e piacevole nonostante fondamentalmente non esiste nella storia. Quest’apparizione della guest stat Bridget Reagan sembra a tutti gli effetti un tentativo di tastare il terreno per capire se il pubblico possa amare un ingresso in scena a sorpresa del personaggio di Megan. Una specie di resurrezione che farebbe molto Beautiful, ma che la stessa Shonda Rhimes non ha escluso. Se questa è la Megan che vedremo, ci sono tutti i presupposti per innamorarsene. Da parte del pubblico e, nuovamente, da parte di Riggs.
https://youtu.be/8Gu4y3Bw6g4
Anche la parentesi dedicata Stephanie è potentissima e davvero originale nel cercare di far scoprire qualcosa sul suo passato: la Edwards riconosce la malattia autoimmune del paziente perché ne ha sofferto anche lei e la proiezione di se stessa da bambina, col ricordo della sofferenza che porta con sé, la spinge a farsi largo per far valere la sua diagnosi in sala operatoria.
https://youtu.be/Z7sb3cudmVw
Infine Meredith, quella che la riguarda è la parte più straziante ed emozionante per lo spettatore. Per tutto l’episodio si è contrapposta a Owen in un continuo scontro sul da farsi: da un lato la giovane specializzanda diventata in tempo record primario di chirurgia e dall’altro l’esperto primario di traumatologia, che ha lavorato nei campi da guerra e ha un’esperienza sul campo certamente maggiore e in condizioni estreme. Il conflitto tra i due rispetto alle procedure da utilizzare per provare a salvare il paziente si risolve con l’illuminazione di Meredith: l’intuizione della Grey di un autotrapianto di fegato, che si rivelerà risolutivo, arriva quando scopre che il paziente è stato riconosciuto dalla moglie. Si tratta di Carl, padre di due figli, un bambino e una ragazzina, proprio come il suo Derek due anni prima. E in un attimo si torna all’episodio 11×21, forse il più odiato della storia di Grey’s Anatomy.
https://youtu.be/CQQzi9EH9dY
Un déjà-vu della Gray diventa l’espediente per mostrare al telespettatore qualcosa di inedito: scopriamo così come Meredith ha comunicato ai suoi figli la morte del padre, in una proiezione di se stessa fuori dalla sala operatoria, che nella sua mente diventa quella del Dillard Medical Center in cui McDreamy è spirato dopo un incidente stradale. Il dialogo coi suoi figli è quanto di più commovente abbia regalato questa stagione: la piccola Zola che chiede alla madre di “aggiustare” il papà, perché lei “aggiusta tutti” fa da contraltare al senso di colpa e all’impotenza della Grey, inerme di fronte alla tristezza dei suoi figli. Ma se non è riuscita a salvare Derek, così come Richard non ha potuto salvare la madre o Owen la sorella, non vuol dire che Meredith non possa salvare la vita che è adesso nelle sue mani (come ha cercato di spiegare più volte anche alla specializzanda Penny Blake che ha fallito nel soccorrere Derek). Così arriva la svolta, l’estremo tentativo di un autotrapianto in chirurgia d’emergenza. E stavolta tutti i colleghi sono con lei.
https://youtu.be/Rlnqnb8dHy8
Ma le emozioni di quest’episodio non sono finite qui. Una volta fuori dalla sala, Webber spiega a Meredith di aver pensato alla madre durante l’operazione perché quel ricordo lo aiuta ad essere un medico migliore, a non concepire le persone come ad ammassi di tessuti, ossa ed organi (come pure gli è stato insegnato), ma a provare empatia per il dolore altrui. Ed è così che per Meredith arriva il ricordo di colui che forse più di tutti al Grey Sloan aveva fatto della compassione per il paziente il suo marchio di fabbrica. Un giovane Derek che le sorride e la saluta, sulle note del cosiddetto “MerDer theme” e indossando quella stessa cuffietta coi ferryboat che oggi Meredith indossa in suo omaggio, ricorda a tutti coloro che ancora seguono Grey’s Anatomy che la serie ha ben presente da dove viene e dove sta andando, che i suoi pilastri sono ancora lì, fermi e solidi, nonostante non siano più sullo schermo. Va detto una volta di più che nonostante il personaggio di Derek sia morto in un episodio scritto male, avulso dal resto della trama e certamente deludente, da allora non si è persa occasione per celebrarne (in modo ruffiano, certo, ma non per questo non emozionate) la memoria, pur nella scelta di aprire la strada ad un nuovo amore per Meredith.
La scrittura e la messa in scena di questo episodio dimostrano quanto la sapienza degli autori e del cast tecnico di Grey’s Anatomy abbia ancora molto da dire, potenzialmente. E lo fa nonostante la trama orizzontale di questa stagione per il momento lasci molto a desiderare, per la superficialità con cui sono state trattate le diverse storyline innestate fino ad ora. Una stagione che pure era partita benissimo con il dramma di Alex Karev e le sue conseguenze, per poi arenarsi in uno stallo in cui nulla sembra procedere col giusto approfondimento (in primis la storia della vita segreta di Jo Wilson). Questo episodio, chiuso in sé stesso ed isolato dal flusso narrativo dei precedenti, probabilmente è il migliore visto finora in Grey’s Anatomy 13. E viene da pensare che sia così proprio perché è slegato dalle storyline che in questo momento arrancano. Qualitativamente parlando svetta su tutti gli altri per l’originalità e la cura di ogni dettaglio, dai dialoghi serrati e profondi alla ricchezza di riferimenti associati a ciascun personaggio, passando per la regia quasi cinematografica. Di sicuro Grey’s Anatomy 13×08 è uno di quegli episodi – come il nono e il ventiduesimo della scorsa stagione – da antologia, che ancora ci ricorda il motivo per cui dopo oltre 10 anni continuiamo guardarlo e forse non smetteremo mai.