A Piuma l’incauta ammissione in concorso all’ultimo festival di Venezia non aveva fatto bene: troppo leggera la commedia di Roan Johnson, inadatta a reggere il peso delle austere sale della “Mostra internazionale d’arte cinematografica”. E infatti erano piovute molte critiche. Ma cosa resta del film, decantata questa micidiale prima impressione? Non erano dispiaciute le precedenti due prove del regista: I primi della lista, buffa storia di militanti anni Settanta che scappano dall’Italia paventando un inesistente colpo di stato neofascista e Fino a qui tutto bene, tenera commedia generazionale sul conto alla rovescia della fine dell’università e le ansie del passaggio alla vita adulta.
In Piuma, invece, il passaggio avviene all’improvviso, senza soglie riconoscibili, per un’indesiderata gravidanza in cui si trovano catapultati Ferro e Cate (Luigi Fedele e Blu Yoshimi, acerbi ma non spiacevoli), due diciottenni alle prese con gli esami di maturità. Ma è tutto l’ambiente che gravita intorno a loro a essere spiazzato, come se l’immaturità fosse un collante intergenerazionale. Il padre di Cate (Francesco Colella) è uno squattrinato buono a nulla, che sopravvive di modestissimi espedienti. I genitori di Ferro sono una professoressa democratica (Michela Cescon), inguaribilmente votata alla funzione taumaturgica del dialogo coi figli, e il padre irritabile (Sergio Pierattini), che sognerebbe di tornare ai tempi in cui un genitore poteva distribuire qualche pedagogico scapaccione.
Piuma completa il ritratto d’ambiente col nonno ciarliero, sempre sul punto del collasso a ogni nuova baruffa familiare e una cugina fisioterapista, fricchettona e new age. Il film procede così, per accumulazione di personaggi e avvenimenti, con questa famiglia allargata che a ogni sollecitazione reagisce alzando il volume dello scontro, della confusione, dell’irresponsabilità.
Piuma non riesce a dare un ordine alla materia narrativa, affastellando troppi e improbabili rovesci, con figurine che sconfinano nella macchietta e ripetitive baruffe tra parenti alla fine delle quali però il sistema famiglia non affonda mai, perché il cemento degli affetti lo mantiene a galla nonostante tutto. E in Piuma la metafora del restare a galla è centrale: come le paperelle di plastica di cui racconta Ferro, che sbalzate a migliaia fuori da un cargo solcano caparbie gli oceani; e come i due neogenitori, che nuotano fiduciosi sopra una Roma trasformata in accogliente piscina, in un’accattivante ma troppo insistita immagine di leggerezza.
Chissa, forse Piuma aveva anche l’ambizione di azzardare qualche considerazione non del tutto benevola sul carattere degli italiani di oggi. Ma il film sin dal titolo – Piuma è il nome che i ragazzi scelgono per la bambina –, ci annega in una levità che sconfina nella superficialità. Cadenzata sulla scappatoia dei sentimenti – che tengono insieme anche le famiglie più turbolente e regalano magicamente forza e senso di responsabilità persino ai più improvvisati tra i genitori –, le ruffianerie (i messaggi dolceamari che Ferro registra per la figlia, i graffiti dei genitori in sala parto), le battute d’una commedia che s’affida a troppe gag per stemperare le tensioni ed evitare di guardare con lucidità la realtà dei fatti.