In un saggio sul filone del cinema americano dedicato alla guerra del Vietnam, il regista e storico del cinema Vito Zagarrio cita la scena di un film del 1980 che sembra non c’entri nulla, Superman II, in cui «Christopher Reeve, portando in volo una bandiera americana, atterra sulla Casa Bianca emblematicamente scoperchiata dai cattivi extraterrestri, e dice: “Presidente, scusi se sono stato via per un po’, ma non succederà più”». Una sequenza che, sostiene lo studioso, “dice molto sull’ideologia e sulle fantasie collettive americane alla fine degli anni Settanta”, di un paese che denuncia un rinnovato bisogno di eroi.
La percezione collettiva negli anni Settanta, infatti, è che gli eroi si siano dileguati. La causa principale della sfiducia è la sconfitta nella guerra del Vietnam. Un trauma profondissimo, che diffonde nell’opinione pubblica un senso inatteso di precarietà. La condizione di insicurezza viene confermata dalla crisi degli ostaggi dell’ambasciata americana a Teheran nel 1979, quando i rivoluzionari khomeinisti iraniani occupano la sede diplomatica statunitense facendo prigionieri 52 cittadini americani. I militari statunitensi tentano un colpo di mano per liberarli, ma l’operazione fallisce sonoramente. E in un paese che già si percepisce fragile, questo evento produce ulteriori, sinistri scricchiolii, rinforzando il diffuso senso di frustrazione. La popolarità del presidente Carter crolla istantaneamente e cresce nell’opinione pubblica il bisogno d’una leadership forte, che viene incarnata dal nuovo presidente repubblicano Ronald Reagan, eletto nel 1980. È lui, in un certo senso, il primo eroe a tornare sulla ribalta: e con lui ne giungono altri, provenienti dallo stesso ambiente in cui era cresciuto il mito di Reagan, quello del cinema hollywoodiano di cui era stato protagonista come attore a partire dalla fine degli anni Trenta.
Insieme alla politica, il cinema diventa la spia più evidente della voglia di riscatto e di ridefinizione del patrimonio genetico identitario negli Stati Uniti degli anni Ottanta. I film della New Hollywood degli anni Settanta infatti, riflettendo in tempo quasi reale la storia del paese, avevano occupato gran parte dello spazio dell’immaginario con ritratti demoralizzanti di reduci di guerra traumatizzati. Come il protagonista di Heroes (1977), un Henry Winkler che non ha nulla dello spensierato Fonzie di Happy Days, oppure lo psicotico Travis Bickle di Taxi Driver, il cui illividito dolore esplode in un bagno di sangue da giustiziere della notte. E se non apertamente violenti, i reduci sono ridotti ormai a malinconiche figure di impotenti, senza un braccio (Alice’s restaurant di Arthur Penn, 1969), o costretti su una carrozzella (Tornando a casa e Il cacciatore, entrambi del 1978).
La misura è colma: il paese non ne può più e richiede il ritorno degli eroi, il ritorno del superuomo. In politica arriva Ronald Reagan. Al cinema arriva John Rambo. Il collegamento non è pretestuoso, perché, come è noto, si tratta d’una connessione creata proprio dal presidente americano, che dopo aver visto il secondo episodio della serie, Rambo 2 La vendetta, dichiara pubblicamente “La prossima volta manderò Rambo”.
Come ho già spiegato in un precedente articolo, il vero cambiamento di direzione non riguarda il primo episodio della serie interpretata da un iconico Sylvester Stallone, Rambo di Ted Kotcheff, in cui il reduce è ancora un individuo traumatizzato. Il punto di svolta è Rambo 2 La vendetta, diretto da George Pan Cosmatos, in cui l’ex combattente assurge allo status di eroe invincibile, mandato dal colonnello Trautman (Richard Crenna) in una missione in territorio vietnamita per ritrovare i presunti dispersi della guerra del Vietnam, ancora tenuti prigionieri dal nemico.
Quello dei prigionieri di guerra è stato un tema su cui frange dell’opinione pubblica statunitense hanno ampiamente speculato durante gli anni Ottanta, sostenendo che ci fossero ancora numerosi combattenti sequestrati dall’esercito vietnamita. Va detto che un’inchiesta di una commissione del senato americano dei primi anni Novanta è giunta alla conclusione che “non esiste alcuna evidenza che dimostri l’esistenza di prigionieri americani ancora vivi nel Sud-est asiatico”. Ma ciò non ha impedito il proliferare in quegli anni di un piccolo ciclo, quasi un sottogenere bellico dedicato al tema: i cui eroi sono il Rambo di Stallone e il colonnello Braddock di Chuck Norris, nella serie apertamente propagandistica Missing in Action (entrambi anticipati nel 1983 dal primo esemplare del filone, Fratelli nella notte, diretto proprio da Ted Kotcheff; il cerchio si chiude).
Questa serie di film, Rambo 2 La vendetta su tutti, si fonda sull’idea di riportare indietro le lancette dell’orologio, per riuscire finalmente a vincere una guerra in realtà persa. Rambo non torna in Vietnam solo per salvare dei commilitoni dispersi, il suo vero obiettivo è ribaltare le sentenze delle storia, forse inappellabili sul piano della realtà, ma invece “riscrivibili” – secondo la definizione di Studlar e Desser, due studiosi che hanno analizzato il fenomeno – su quello dell’immaginario. Infatti prima di partire per la missione Rambo chiede esplicitamente a Trautman: “Questa volta vinciamo?”.
In gioco però non c’è solo il risarcimento d’una sconfitta bellica, ma campeggia anche l’idea del riallineamento a un diverso e più antico universo di valori. Al centro del quale si colloca l’immagine di un maschio forte e granitico, che ribalta completamente il modello del reduce fragile del decennio precedente. Dopo le incertezze palesate nel primo episodio della serie, in Rambo 2 La vendetta il personaggio di Stallone si trasforma in quella che Trautman definisce “una pura macchina da guerra”, di cui il film mostra dettagli feticisti e ossessivi del corpo esageratamente muscoloso, quasi oltreumano.
Susan Jeffords ha parlato di un processo di “rimascolinizzazione”, che non riguarda solo l’identità dell’uomo, ma anche dell’America. Un’identità nella quale il ruolo della donna diventa minoritario sino all’esclusione. E sebbene in Rambo 2 La vendetta ci sia una figura femminile di una certa importanza, è inevitabilmente destinata a essere eliminata. E precisamente nel momento in cui, dettaglio importante, sta baciando Rambo. Perché questa versione mitizzata dell’eroe, paradossalmente, è d’una mascolinità talmente estremizzata da porsi al di là dei generi e dei confini d’una sessualità definita.
In questo percorso a ritroso verso la ricerca di un’immagine ideale del vero uomo, inevitabilmente Rambo s’imbatte nel prototipo fondativo della mascolinità americana, il cowboy. Rambo 2 La vendetta, quindi, riannoda il genere bellico alla mitologia western: sia perché la conquista dell’estremo oriente, il far east, si riallaccia simbolicamente alla conquista dell’ovest (il far west), sia perché il Rambo che nella giungla usa arco e frecce e si dipinge il volto per mimetizzarsi assomiglia tanto agli indiani americani, anche se poi uccide i nemici “rossi” (vietnamiti e russi, presenti a indicare come l’altro conflitto che si combatte sul fronte vietnamita è quello della Guerra fredda, ancora in corso negli anni Ottanta degli scudi stellari) al modo in cui i cowboy ammazzavano gli indiani. Il ricorso ad armi “artigianali” è spia di un’altra esplicita polemica espressa da Rambo 2 La vendetta, quella contro la pervasività della tecnologia, testimoniata dal finale in cui Rambo distrugge i computer, che sono le armi smidollate degli infidi burocrati doppiogiochisti, mentre il vero guerriero si affida al coraggio senza machiavellismi del pistolero d’una volta.
Rambo 2 La vendetta, cui seguirà dopo poco un terzo episodio molto simile, Rambo 3 (mentre il recente John Rambo è tutt’altra cosa), è un punto di non ritorno sul piano dell’estremismo ideologico. Immediatamente dopo, forse anche per reazione, nel cinema americano giungono film che ricollocano le vicende in un contesto più realistico e rispettoso della storia, come Platoon (1986) di Oliver Stone e Full Metal Jacket (1987) di Stanley Kubrick, o Nato il quattro luglio (1989), ancora di Stone, in cui ricompare il reduce in carrozzella, stavolta però energico e battagliero, sebbene contro l’establishment.
C’è anche spazio per una pellicola singolare, Giardini di pietra (1987), con cui Francis Ford Coppola torna al Vietnam dopo l’allucinato, epocale Apocalypse Now. Il film racconta un Vietnam a distanza, dalla prospettiva del reggimento della caserma di Arlington, negli Stati Uniti, il cui compito è seppellire con gli onori militari i caduti in guerra. Una storia di asciutta commozione, che mostra un grande rispetto per i soldati e i loro valori, ma che al tempo stesso dice sommessamente che, una volta reso il doveroso omaggio e seppelliti i caduti, è giunto il momento di elaborare il lutto e andare avanti. Non per dimenticare le cicatrici che la tragedia ha lasciato sul corpo degli uomini e della nazione, ma per rinunciare all’ossessione del risarcimento e della vendetta. Per cambiare finalmente pagina.