Nel cinema americano degli anni Settanta fa la sua comparsa un nuovo personaggio destinato a segnare quel decennio e il successivo: il reduce del Vietnam. Sono quasi sempre individui profondamente traumatizzati, sofferenti per violente ossessioni che si indirizzano contro gli altri o se stessi. Sono reduci il Travis Bickle di Taxi Driver (1976) e il maggiore Rane di Rolling Thunder (1977), che si trasformano in controversi giustizieri; e sono reduci Nick, che ne Il cacciatore (1978) è risucchiato a morte dalla spirale della roulette russa, e il capitano Bob Hyde di Tornando a casa (1978), che si toglie la vita per la frustrazione di non essere diventato un eroe.
È un reduce anche il loro fratello minore John Rambo, il personaggio interpretato da Sylvester Stallone in Rambo (1982) di Ted Kotcheff. Rambo è un eroe di guerra, insignito dopo il Vietnam della medaglia d’oro del Congresso. Ma è, soprattutto, un uomo disperato che, dopo aver saputo della morte dell’ultimo commilitone del suo squadrone, capisce di essere irrimediabilmente solo. Vaga con l’aria di un vagabondo e come tale lo tratta Teasle (Brian Dennehy), sceriffo della cittadina in cui l’ex soldato vorrebbe fermarsi per mangiare un boccone. Rambo viene arrestato senza una precisa ragione e trattato con una brutalità che fa riaffiorare in lui flashback delle torture subite in guerra. Allora scappa, trovando riparo nei boschi: ma l’assassinio accidentale di un poliziotto trasforma la sua fuga in una inesorabile caccia all’uomo. Nella quale però è subito chiaro che i topi sono le inesperte forze dell’ordine, mentre il gatto è quell’infallibile macchina bellica forgiata da anni di guerriglia nelle foreste vietnamite.
Nel guardare a più di trent’anni di distanza il primo Rambo, bisogna fare uno sforzo di astrazione. Bisogna dimenticare gli anni Ottanta, Ronald Reagan e le ultime propaggini della guerra fredda antisovietica. Soprattutto, bisogna dimenticare gli altri film della saga, prodotti dopo il successo del prototipo, Rambo 2 La vendetta e Rambo 3. Fu dopo aver visto il secondo episodio, quello in cui l’eroe torna in Vietnam per recuperare i prigionieri di guerra americani – così gli Stati Uniti trovavano vicariamente nella finzione cinematografica una forma di risarcimento per una guerra in realtà persa –, che il presidente Reagan disse la famigerata frase: “La prossima volta manderò Rambo”.
Il superomismo guerriero e la retorica bellicista che si sono incrostati sul personaggio Rambo, quindi, appartengono in gran parte ai sequel e molto meno all’originale. Divennero un marchio di fabbrica talmente forte da incidere sull’identità stessa dell’attore Stallone. Il quale replicò fino alla nausea quel modello, inventandosi giustizieri psicopatici con licenza di uccidere – l’allarmante Cobra, protagonista di uno dei film più brutti (e rappresentativi) del decennio – e snaturando persino l’eroe proletario Rocky Balboa, trasformato in uno strumento di propaganda – Rocky IV, diretto dallo stesso attore, l’episodio del match col russo Ivan Drago e la celebre battuta “Io ti spiezzo in due”, frutto d’una grottescamente geniale traduzione nella versione italiana.
Se però riusciamo a cancellare il senno di poi e a fermare le lancette sul 1982, Rambo mostra più chiaramente i rapporti col cinema della stagione che l’ha immediatamente preceduto, cui appartiene, oltretutto, anche il romanzo del 1972 da cui la pellicola è tratta, Primo sangue di David Morrell (il titolo originale del film infatti è First Blood). Il libro, tra l’altro, conteneva elementi che esaltavano ancora di più l’ambiguità della vicenda: sia perché lì lo sceriffo era un veterano della guerra di Corea, sia perché il Rambo romanzesco commetteva molti più omicidi. Pare sia stato lo stesso Stallone a suggerire un personaggio meno violento, che uccide una sola volta e senza volerlo. Ma nel film le oscillazioni nella definizione del personaggio e della storia sono state molte, come dimostra il finale alternativo in cui Rambo muore per mano del suo ex comandante (ma praticamente suicidandosi, proprio come i reduci degli altri film di questo singolare sottogenere bellico vietnamita).
Il primo Rambo quindi, è un’opera segnata da un nichilismo sotterraneo, in cui l’uso della violenza da parte del protagonista affiora come una forma reattiva, certamente patologica, al turbamento di un soggetto borderline. Il film però esalta oltremisura l’inscalfibilità del personaggio – lo vediamo aggirarsi felino nella boscaglia, sconfiggere in perfetta solitudine decine di avversari, ricucirsi una ferita senza anestesia –, invece di sondarne con maggiore lucidità il disagio psichico, che emerge troppo platealmente solo nel finale.
Tuttavia Rambo funziona perfettamente come sintomo attraverso cui leggere la cultura e l’ideologia del suo paese all’altezza del 1982: non solo riguardo ai postumi del trauma della guerra, ma anche rispetto all’immagine di mascolinità che il cinema statunitense stava costruendo – Robin Wood, in uno studio fondamentale su quegli anni, annota che “il movimento femminista produsse a Hollywood una reazione nel segno di una virilità isterica, la cui unica sorpresa è che non si manifestò prima: l’anno chiave è il 1982, quello dell’uscita di Conan il barbaro e Rambo”.
Arnold Schwarzenegger e Stallone incarnarono il nuovo modello di mascolinità tronfia degli anni Ottanta, quelli che Susan Jeffords definì gli hard bodies dell’età reaganiana, che reagiscono all’insicurezza gonfiando i muscoli oltremisura. Schwarzenegger assurse dall’oggi al domani allo status di icona metallica, quasi oltreumana (come Terminator ribadirà subito dopo); mentre Stallone, come già detto, sottopose a una decisa torsione l’immagine di Rocky, l’eroe buono e semplice della working class.
Il punto di svolta di questa trasformazione identitaria di Stallone è il primo Rambo. Un film che però va letto per quanto possibile nelle sue qualità e limiti specifici. In questo episodio il personaggio Rambo mostra nella sua inadeguatezza sociopatica tutte le cicatrici di un paese passato attraverso la sconfitta e la disillusione. E non si tratta solo di ferite individuali, dato che le forze dell’ordine della “tranquilla” cittadina in cui l’ex soldato capita, si rivoltano ferocemente e immotivatamente contro di lui. Rifiutando Rambo, rifiutano la storia di cui il reduce è portatore: e la loro reazione incontrollata è certo segnale di ulteriori disagi collettivi.
La natura ambigua e controversa di Rambo si rimodella completamente sul ritmo da fanfara trionfalistica di Rambo 2, in cui il protagonista trova finalmente una causa da combattere – la stessa, la guerra in Vietnam, ma stavolta si vince – e un vessillo da portare in cui riconoscersi, quello della rinnovata ideologia da Guerra fredda. L’eroe ferito e tradito del primo episodio si trasforma nell’eroe di un conflitto vecchio/nuovo e di un paese che finalmente ridiventa la sua casa.
Però, la volgare propaganda di Rambo 2 – che è a sua volta spia di ulteriori discorsi, infatti lo studioso Robert Sklar lo definì “il film più carico di significati per la cultura americana del decennio” – non deve farci dimenticare il valore del prototipo, film discusso e discutibile ma tutt’altro che semplicistico, forse l’opera decisiva per comprendere, dal punto di vista ideologico e sociologico, il passaggio di stato dagli anni Settanta agli Ottanta americani.