Café Society è il 47esimo film di Woody Allen, prima regia in digitale e prima collaborazione con il maestro della fotografia Vittorio Storaro. Allen torna ai suoi amati anni Trenta, al jazz, alla piccola borghesia ebrea newyorkese in un film dal ritmo binario: due città (e due idee dell’America), Los Angeles e New York, e due donne (e due idee della vita e dell’amore), che si chiamano entrambe Veronica.
Bobby (Jesse Eisenberg, spudoratamente alleniano), insoddisfatto dalla sua vita newyorkese emigra a Los Angeles, a caccia della grande occasione. Confida nell’aiuto dello zio Phil (Steve Carell), potente agente delle star hollywoodiane, che gli rimedia lavoretti ma soprattutto gli presenta Veronica detta Vonnie (Kristen Stewart), di cui Bobby s’innamora perdutamente. Ma lei ama un uomo sposato. Andati in frantumi i sogni d’amore e di carriera, Bobby torna a New York e col fratello Ben (Corey Stoll) – che è un gangster, ma in famiglia tutti fanno finta di niente – apre un locale che diventa di tendenza. Bobby conosce un’altra Veronica (la radiosa Blake Lively) e cambia vita. Finché Vonnie non ricompare a New York.
Café Society è un film sulle ambizioni, la fallacia dei sogni, quel mistero imponderabile e incerto che è l’amore. Eppure fatichiamo a unirci al generale plauso della critica, probabilmente per nostra refrattarietà alla poetica e allo stile alleniani. Di cui pure abbiamo apprezzato soprattutto quel pugno di commedie tragiche e malinconiche degli anni Ottanta (Broadway Danny Rose, Radio days), in cui il suo caratteristico gusto comico del paradosso si fondeva compiutamente col sottofondo serio delle storie.
Café Society, invece, sembra una sorta di bignami dell’Allen migliore, di cui ripropone molti temi in maniera sintetica e, verrebbe da dire, superficiale. Vonnie illustra l’anima di Los Angeles al nuovo arrivato Bobby mostrandogli le facciate delle ville dei divi del cinema a Beverly Hills. Forse Woody Allen vuole velenosamente suggerire che basta quello per comprendere la natura fasulla del mondo dorato delle star. Ma resta il dubbio che sia Allen a stazionare sulla superficie, accontentandosi di affermare apoditticamente l’ipocrisia, l’arrivismo, la competitività di una Hollywood che vediamo poco, per scorci pallidissimi ed esangui.
Allo stesso modo Café Society è popolato di fantasmi: si citano continuamente la Garbo, Errol Flynn, Paul Muni, senza che uno di questi divi si materializzi, a parte un Rodolfo Valentino in fotografia e Barbara Stanwyck in un vecchio film. Questo non perché volessimo assistere a una grottesca galleria di sosia delle star del tempo che fu, ma per la necessità di dare corpo e sostanza a una realtà continuamente richiamata e mai mostrata.
Lo stesso succede una volta tornati a New York. Gli eleganti movimenti della macchina da presa svelano il bel mondo che affolla il locale di Bobby e Ben, mentre la voce fuori campo dello stesso Allen ci spiega il chi, il cosa, il come di tutti quei volti ignoti. Café Society non è un film di accadimenti, ma di puntigliosi resoconti, oberato da una coazione a dire che non si arresta mai. Bobby non riesce a trattenersi nemmeno quando, dopo anni, è finalmente di nuovo solo con la Vonnie dei suoi sogni, e prima di baciarla le dice: “Siamo soli a Central Park con la luce che disegna i palazzi”.
Come se ci fosse bisogno di descrivere a parole ciò che tutti chiaramente vediamo per farlo esistere davvero. Come se il cinema fosse solo la variante imperfetta di quel romanzo fitzgeraldiano che è forse l’aspirazione segreta di Woody Allen. Ma Café Society, nonostante l’esibizione di un universo tematico che ruota intorno allo struggimento sentimentale, l’ambizione e il crollo delle aspettative, lambisce solo la superficie di quel romanzo agognato.