Prima ancora di uscire nelle sale, nelle quali è in programmazione da oggi, Indivisibili di Edoardo De Angelis è diventato il caso cinematografico italiano dell’anno. Prima le polemiche di inizio settembre al festival di Venezia, con le proteste di alcuni addetti ai lavori perché la pellicola era stata “confinata” nelle Giornate degli Autori e non ammessa al concorso principale. Poi è stata la volta, questa settimana, della votazione della Commissione dell’Anica che ha selezionato il film italiano da far concorrere ai premi Oscar: Indivisibili è stato battuto 5 a 4 da Fuocoammare di Gianfranco Rosi, con gran dispetto del votante Paolo Sorrentino.
Indivisibili, opera terza di Edoardo De Angelis, regista in netta crescita dopo Mozzarella Stories e Perez, racconta la storia di due gemelle siamesi diciottenni attaccate per un fianco, Viola e Dasy (Angela e Marianna Fontana), cantanti neomelodiche – cavallo di battaglia del duo è ovviamente Indivisibili – la cui fama è legata principalmente alla loro deformazione, che le rende oggetto d’una superstiziosa venerazione popolare.
Intorno alle ragazze ruota una piccola corte dei miracoli che vive alle loro spalle: un padre padrone (Massimiliano Rossi) che per loro compone pezzi cupissimi (“Tutte le belle canzoni sono tristi”, dice); una madre inerte e alcolizzata (Antonia Truppo); un prete (Gianfranco Gallo) che parla poco di fede e molto di affari, il quale usa le ragazze per le sue processioni da baraccone, vestite come due madonne cui il Signore ha fatto la grazia d’una miracolosa menomazione. A un certo punto un chirurgo (Peppe Servillo) visita Viola e Dasy e dice loro che è possibile separarle. E i genitori-manager entrano in fibrillazione, temendo di perdere il business.
Indivisibili nasce da un soggetto di Nicola Guaglianone, lo sceneggiatore di Lo chiamavano Jeeg Robot, ancora una volta attratto da esseri fuori dalla norma, segnati dalla diversità fisica e da una vita in una periferia ai confini della realtà. Edoardo De Angelis dà corpo e sostanza alla sceneggiatura, ambientandola nel litorale casertano di Castel Volturno, non-luogo di insensati palazzoni sul mare e costruzioni divenute fatiscenti prima ancora d’essere ultimate. Una terra d’una miserabilità lunare, popolata da un’umanità di marginali privi di prospettive.
La diversità di Viola e Dasy diventa la metafora della deformità d’un mondo senza speranze. D’altro canto, però, la loro bellezza esasperatamente angelica suggerisce, di quella terra, un altro volto possibile, seppure mai realizzato. Nell’approccio di Edoardo De Angelis leggiamo una malinconica pietas verso una realtà mostrata anche con ferocia, ma sempre con malcelata tenerezza, secondo quella miscela contraddittoria di odio per le potenzialità inespresse e amore viscerale verso la propria terra che è un sentimento geneticamente napoletano – è la ragione per cui il film parla rigorosamente in dialetto. In tal senso in Indivisibili si ritrova quel groppo di furia repressa e orgoglio identitario che un cinema napoletano più fiducioso di poter cambiare le cose esprimeva vent’anni fa, ai tempi di presunti rinascimenti, in film come L’amore molesto di Mario Martone (ed Elena Ferrante), altro grande film su femminilità, doppio e Sud.
In Indivisibili, Edoardo De Angelis posa questo stesso sguardo premuroso sulle straordinarie protagoniste, costantemente pedinate nei loro itinerari confusi in quella terra di nessuno. Se c’è un giudizio malevolo, è per il mondo che ruota intorno alle gemelle: i veri fenomeni da baraccone sono il prete senza Dio, i genitori affamati di roba e privi di amore, il laido manager (che nel film si chiama Marco Ferreri!) perversamente attratto dal corpo eccedente la norma di Viola e Dasy.
Indivisibili esibisce con gusto cinefilo persino ingenuo i suoi riferimenti, da Freaks di Tod Browning (i nomi delle ragazze ricavati da Daisy e Violet Hilton, interpreti di quel film), al Ferreri de La donna scimmia (girato non a caso a Napoli). Ma, a parte la stonatura della sequenza sulla nave, scolasticamente spinta sul pedale del grottesco, Edoardo De Angelis sa trovare uno stile personale, raffinato e popolare, che poggia sui corpi, sull’intensità recitativa dell’indovinato cast (l’energia che le due ragazze mettono nell’interpretazione è il segno della vitalità, nonostante tutto, del mondo che raccontano), su una partitura che mescola desiderio (del cambiamento) e paura (della separazione), sacro e profano. Un racconto di forza universale che poteva essere girato solo in quella terra. Che fa pensare a quanto avesse ragione Paolo Sorrentino nel reclamare Indivisibili quale candidato all’Oscar.