Dopo il tentativo di rinnovare il franchise con l’episodio spin-off con Jeremy Renner, si torna all’antico con Jason Bourne (2016), quinto capitolo della serie sull’agente senza memoria, che riparte dal protagonista Matt Damon e dal regista Paul Greengrass.
Stavolta è una questione di famiglia. L’ex agente Cia Nicky Parsons (Julia Stiles, presente anche nei precedenti episodi) mette Jason Bourne sulle tracce del padre morto in un attentato anni prima. Perché forse ha avuto un ruolo non proprio immacolato nelle operazioni della Cia: e rispondere a questa domanda serve a Bourne anche per risalire anche alla propria di storia, piena di lacune e vuota di ricordi.
Ma appena Bourne riappare si riattiva tutta l’organizzazione: il direttore della Cia Robert Dewey (Tommy Lee Jones) che vuole eliminarlo perché teme riveli segreti innominabili; Asset (Vincent Cassel), il killer letale messo sulle sue tracce; ed Heater Lee (Alicia Vikander) agente ambiziosa ed hacker formidabile, la quale non è così certa che Bourne costituisca un pericolo.
Jason Bourne è una storia di odi, vendette e cospirazioni, cui fa da sfondo uno scenario contemporaneo. Ma non è non più tempo per parlare delle colpe della politica lanciando accuse all’America di George Bush. Allora si aggiorna l’apparato storico di riferimento, introducendo il personaggio di Aaron Kalloor (Riz Ahmed), creatore della piattaforma social da un miliardo di utenti Deep Dream, che flirta dietro le quinte con la Cia, cui fornisce illegalmente gli appetitosi big data.
Il senso dell’attualità di Jason Bourne è sospetto: si parla di rete, deep web, social network, si cita Edward Snowden, ma con superficialità e faciloneria, giusto per aggiornare e rendere un po’ più credibile la trama. Che è quella elementare di sempre, con l’eroe da un lato e i cattivi dall’altro. Ed è ormai di prammatica il racconto globale che salta da una capitale all’altra, Reykjavík e Roma, Atene e Londra, Berlino e Las Vegas. Con la tecnologia che, naturalmente, consente di sorvegliare, monitorare, prevedere ogni cosa in tempo reale, quale via di salvezza cercherà il fuggitivo o tra quanti secondi raggiungerà il tetto di un edificio.
Jason Bourne, dettagliato nel costruire le adrenaliniche sequenze d’azione, non ha nessun interesse per le questioni più generali. Entusiasma certamente l’iniziale fuga in motocicletta del protagonista per le strade di Atene: ma i manifestanti impegnati nelle violente proteste antigovernative restano semplicemente un fondale coreografico su cui disporre l’inseguimento. E appena si cambia scena e città tutto riparte, come nulla fosse.
Lascia abbastanza sgomenti il ritratto della Cia, diretta dal mefistofelico Dewey, che pianifica addirittura degli attentati. Ma questo non conduce ad alcun interrogativo sulla natura dell’organizzazione, perché basta cambiare gli uomini al comando e tutto torna magicamente a posto. Nel vecchio I tre giorni del Condor di Sydney Pollack, l’idea che potesse esistere una cellula impazzita e malvagia all’interno della Cia spingeva a un’allarmata riflessione politica sul sistema paese. Qui è solo un elemento del racconto come un altro, quasi ininfluente, sepolto com’è sotto una serie interminabile di inseguimenti, sparatorie e scazzottate.