Il festival del cinema di Venezia 2016 incassa gli entusiasmi della prima giornata per La La Land di Damien Chazelle, un film che mescola romanticismo, nostalgia per la Hollywood anni Cinquanta, una confezione fantasmagorica con movimenti di macchina vertiginosi. Owen Gleiberman su Variety ha detto che La La Land è “il più audace musical su grande schermo da molto tempo”. Ma come ha sottolineato Paolo Mereghetti sul Corriere della Sera, è anche un film che sottolinea la distanza della contemporaneità dalla sensibilità e dai valori di una volta. E quindi se il genere scelto dal film – il musical – e lo stile romantico del racconto rischiano di suonare inattuali, è perché elementi e sentimenti un tempo ritenuti fondamentali sembrano diventati drammaticamente fuori moda. E dunque la sensazione di nostalgia per il passato che certamente La La Land infonde ha un retrogusto amaro, figlia della consapevolezza di quanto fossero importanti cose ormai andate perdute. In ogni caso, La La Land ha ottenuto applausi convinti dal pubblico e lusinghieri giudizi critici, che lo pongono già come un serio candidato per un premio a Venezia e ne accrescono la credibilità nell’ottica dei prossimi premi Oscar.
Ma per Venezia 2016 è già il momento di cambiare pagina, e immergersi nella ricca programmazione della seconda giornata, tra selezione ufficiale e rassegne collaterali. Tre i film in concorso, con un curioso mix tra teatro, melodramma e fantascienza.
Les Beaux Jours d’Aranjuez di Wim Wenders
Wim Wenders torna con Les Beaux Jours d’Aranjuez alla Mostra del Cinema di Venezia, dove mancava dal 2004 (presentò La terra dell’abbondanza) e dove, nel 1982, vinse anche un Leone d’oro, con Lo stato delle cose. Erano altri tempi, quelli di un Wenders ancora tutto dentro le sue ossessioni cinefile e (quindi) americane. Mentre negli ultimi anni, dopo una serie di pellicole spesso opache, Wim Wenders si è dedicato, forse anche rinchiuso, in percorsi semidocumentaristici, inseguendo ritratti d’artista talvolta convincenti (Pina, sulla coreografa Bausch), talvolta meno (l’enfatico Il sale della Terra sul fotografo Salgado).
Perciò questo ritorno a Venezia sa anche di ritorno all’antico, al cinema narrativo e alla collaborazione con il drammaturgo e scrittore Peter Handke, suo storico sodale dai tempi di Falso movimento e Il cielo sopra Berlino. Les Beaux Jours d’Aranjuez è la trasposizione di una recente pièce di Handke, pubblicata in italiano dall’editore Quodlibet. Ed è un film d’impianto teatrale, un uomo e una donna seduti a un tavolo da giardino, Parigi lontana sullo sfondo, che parlano d’amore con confidenza e franchezza. Sono stati amanti? Si stanno forse corteggiando?
Les Beaux Jours d’Aranjuez nasce come uno sfuggente gioco a due, oscillando tra il divertimento e la serietà di una relazione inafferrabile, aperta a sconcertanti rivelazioni. Una vicenda resa ancora più ambigua e sfaccettata dal fatto che la protagonista, Sophie Semin, sia la moglie di Peter Handke, con ulteriori rispecchiamenti quindi tra scena e vita reale. E a complicare il tutto c’è anche la curiosa scelta di Wim Wenders di usare il 3d, solitamente impiegato in opere altamente spettacolari, per una storia dall’impianto così intimo. Un dettaglio che, come ha detto Alberto Barbera, “scombina le carte” e spinge a considerare il film anche una riflessione sulla natura dell’arte cinematografica, un elemento tipicamente alla Wenders.
The Light Between Oceans, di Derek Cianfrance
È certamente uno dei film di Venezia 2016 più attesi dal grande pubblico: The Light Between Oceans (La luce sugli oceani), set galeotto su cui è nata la storia tra Michael Fassbender e Alicia Vikander, ovviamente presenti sul red carpet.
Il film prodotto dalla DreamWorks di Spielberg è tratto dal bestseller omonimo del 2012 dell’esordiente australiana M.L. Stedman. Una vicenda che si preannuncia uno struggente melodramma: lui è un reduce di guerra che trova un romanticissimo lavoro da guardiano del faro, lei l’audace e innamora compagna che lo segue in questo lembo di terra sperduto. I tentativi di coronare il loro sogno d’amore naufragano tra due aborti spontanei e un feto nato morto. Ma il fortunoso rinvenimento d’una neonata in una barca naufragata sugli scogli riaccende le speranze. Solo che, quando ormai la bambina è grandicella compare una donna, interpretata da Rachel Weisz, che in lei riconosce la figlia perduta. E per la coppia si pone un dilemma: ascoltare la voce del sentimento o fare la scelta moralmente più corretta?
The Light Between Oceans è diretto da Derek Cianfrance, un regista che ha fatto esperienza nel circuito indie e ora è al suo primo film con una major. In Blue Valentine, con Ryan Gosling e Michelle Williams, ha saputo raccontare il disfacimento di un amore con accenti onesti e non eufemistici e in Come un tuono ha dimostrato anche un certo talento nel prendere un genere, lì il noir, asciugarlo e declinarlo in una chiave abbastanza personale. Sarà riuscito a compiere la stessa operazione con The Light Between Oceans che, sulla carta, pare un mélo che inclina in maniera preoccupante verso l’inverosimiglianza di una soap opera emotivamente ricattatoria? Il trailer del film batte tutte le note più pompose e lacrimevoli. Ma si sa, i trailer sono spesso ingannevoli e tendono inevitabilmente all’enfasi. Le prime recensioni però, come quella dell’Hollywood Reporter, hanno confermato i timori, lamentando la mancanza di realismo e lo stile old-fashoned di un film, letteralmente, “inanimato”. Staremo a vedere.
Arrival, di Denis Villeneuve
Dei tre film in concorso oggi a Venezia 2016 Arrival è, a mio avviso, il più intrigante. Denis Villenuve è un regista dallo stile potente, persino muscolare (Prisoners, Sicario). Come avrà quindi affrontato un genere apparentemente lontano dalle sue corde come la fantascienza? Arrival si basa sul romanzo breve Story of Your Life di Ted Chiang, con la sceneggiatura di Eric Heisserer. È la storia della dottoressa Louise Banks, interpretata da Amy Adams, una linguista che viene assunta dall’esercito per scoprire se gli alieni recentemente arrivati sulla Terra rappresentino una minaccia oppure no. Accanto a lei Jeremy Renner e Forest Whitaker.
Tutto ruota quindi intorno al mistero del linguaggio, alla possibilità che la dottoressa Banks riesca a individuare una forma di comunicazione, così da evitare il conflitto con entità extraterrestri dalla foggia bizzarra, che il romanzo descrive così: “Sembrava un fusto sospeso all’incrocio di sette arti. Era radialmente simmetrico, e ognuno dei suoi arti poteva servire da braccio o da gamba. L’essere di fronte a me stava camminando su quattro zampe, tre arti non adiacenti erano rannicchiati ai suoi lati”.
La produzione recentemente è incorsa in un errore diplomatico durante la strategia di lancio del film. Sono stati infatti approntati 12 manifesti, ognuno con l’astronave aliena sulla sfondo di una grande capitale mondiale. Ma nel poster dedicato a Hong Kong, nella skyline della città era visibile anche l’Oriental Pearl Tower, che è un simbolo di Shanghai. Il pedestre photoshop ha ovviamente causato una levata di scudi sui social al grido di #HongKongIsNotChina, dato che l’ex colonia inglese è una Regione ad Amministrazione Speciale della Cina, gelosissima del suo status e preoccupata del controllo di Pechino sulla città. E la produzione è dovuta correre ai ripari, modificando il manifesto.
Tornando allo stile del film, il direttore Alberto Barbera, lo ha presentato dicendo che “Denis Villeneuve, con Arrival, rinverdisce la tradizione del cinema spielberghiano mescolandola con uno stile alla Malick”. Il regista, nel frattempo, è già su un nuovo set, ancora più atteso, quello del sequel di Blade Runner con Ryan Gosling, con le riprese in corso di svolgimento in Ungheria. Nonostante l’impegno però Villeneuve, diversamente da Goslin, è regolarmente annunciato oggi sul red carpet di Venezia 2016.
Altri protagonisti: Muccino, Bellocchio, Makhmalbaf
Dalle rassegne collaterali di Venezia 2016, estraiamo tre nomi. Il primo è quello di Gabriele Muccino, che nella sezione Cinema nel Giardino porta il suo ultimo film, L’estate addosso, che mette in contatto le due sponde dell’oceano su cui da anni si divide il suo cinema, fatto di produzioni per metà americane, per metà italiane, ricomposte in questa storia di due adolescenti italiani diversissimi, Marco (Brando Pacitto) e Maria detta la “Suora” (matilda Lutz), che vanno a San Francisco ospiti d’una coppia di omosessuali. Dopo i primi fraintendimenti la nuova esperienza squaderna scoperte inattese. L’anno della maturità, non solo scolastica, l’amore, onde sull’oceano, visioni epifaniche di balene. Sembra il solito cinema, un po’ troppo tendente al messaggio esemplare, di Muccino. Va però anche detto che, pure all’interno di una storia assai enfatica come quella del suo ultimo film americano, Padri e figlie, Muccino aveva dimostrato una tendenza all’asciugamento della retorica più ingombrante. E qualcosa di quel condivisibile senso del pudore potrebbe essere filtrato ne L’estate addosso che, come diversi altri film italiani di Venezia 2016, sceglie di porre i giovani sotto i riflettori.
Nella Settimana della Critica, come evento speciale d’apertura, viene proiettato l’ultimo cortometraggio di Marco Bellocchio, Pagliacci, con la fotografia di Daniele Ciprì. In un teatro di provincia si svolgono le prove d’uno spettacolo tratto da I Pagliacci di Ruggero Leoncavallo. Nel pubblico ci sono la sorella e la madre del cantante, una signora benestante che ha finanziato il progetto. Il gruppo si riunisce per una cena che si trasforma in un delicato confronto familiare, tra rancori e antichi dolori mai sopiti. Bellocchio torna a raccontare le famigli borghesi della provincia, gravate da rapporti ineluttabilmente fallimentari. E incrocia questa vicenda con la sua passione per la scena, che qui prende le forme di un’opera lirica, I Pagliacci, che Bellocchio ha diretto nel 2014 al Petruzzelli di Bari, ambientandola in un carcere. Precedentemente Bellocchio aveva pensato di girare un film con la storia di Pagliacci, però situata in un manicomio criminale, nel quale il direttore decide di allestire l’opera di Leoncavallo per alleviare la pena dei degenti. La famiglia come universo concentrazionario, il teatro, la sofferenza psicologica: Pagliacci sembra decisamente muoversi nel territorio più consono al cinema del regista piacentino.
Il terzo protagonista del giorno è il regista iraniano Mohsen Makhmalbaf, presente nella sezione Venezia Classici con Shabhaye Zayandeh – rood (The nigthts of Zayandeh – rood). È un film del 1990, bloccato all’epoca dalla censura perché contrario allo spirito del regime iraniano. Venne tagliato di 25, poi 37 minuti, poi sequestrato e definitivamente sepolto negli archivi della censura per esplicita volontà del leader iraniano, che lo aveva visionato. Da quegli archivi è stato recentemente trafugato e rivisto da Makhmalbaf, seppure nella versione irrimediabilmente mutilata, ridotta a 63 degli originari 100 minuti. Anche così, come ricorda il regista in una nota redatta per l’occasione di questa eccezionale proiezione veneziana, “nonostante le mutilazioni, la storia e la struttura principale rimanevano quasi indenni. Il film sembrava una cosa vivente senza arti, ma che respirava ancora, e la storia e il significato non erano perduti”. Da qui la scelta di restaurarlo e proporlo al direttore Barbera, che lo ha fortemente voluto nella sezione Venezia classici. In quel momento, conclude Makhmalbaf, “ho sentito il film rinascere. Mi è tornato in mente quel giorno, così tanti anni fa, quando il leader supremo iraniano aveva mandato qualcuno da me. Il suo messaggero era un uomo del clero (Mullah) ed era lì per minacciarmi di morte. Gli ho risposto: “È facile far tacere il regista, ma è impossibile sopprimere il cinema“”.