Pericle il nero di Stefano Mordini oggi è a Cannes 2016, nella sezione Un certain regard. La Francia porta di nuovo bene a questa storia, perché il romanzo omonimo di Giuseppe Ferrandino da cui è tratto il film ottenne visibilità prima oltralpe, pubblicato nella prestigiosa Série Noire dell’editore Gallimard, e poi gli si aprirono le porte italiane dell’Adelphi.
Il romanzo diventa film dopo un lungo percorso, passato attraverso un primo progetto che avrebbe dovuto vedere Francesco Patierno dietro la macchina da presa e Pietro Taricone davanti e poi l’interessamento di Abel Ferrara. Alla fine l’hanno prodotto Riccardo Scamarcio e Valeria Golino con la loro Buena Onda, con una partecipazione in coproduzione dei fratelli Dardenne.
L’ambientazione della storia, rispetto al romanzo di ambientazione napoletana, è stata spostata in Belgio, dove vive questo manovale della camorra, Pericle (Scamarcio), apatico, abituale consumatore di droghe, che per lavoro sodomizza chi sgarra col boss don Luigino (Gigio Morra), che ha esportato la camorra a Bruxelles. Un giorno Pericle commette un errore uccidendo (forse) Signorinella, sorella di un altro boss. Allora fugge in Francia, arrivando a Calais, dove conosce una donna (Marina Foïs). S’installa a casa sua, per trovare riparo dagli inseguitori, ma anche perché attratto dalla donna.
Mordini rispetta il tono del laconico romanzo di Ferrandino, riproducendo l’uso della prima persona attraverso la voce fuori campo del protagonista che commenta gli avvenimenti, secondo un espediente caratteristico del noir cinematografico, qui piuttosto ingombrante. La sorpresa è nello spostamento della narrazione da Napoli al Belgio: una scelta felice, perché questi criminali partenopei immersi in un paesaggio estraneo producono un salutare effetto di spiazzamento, che asciuga la messa in scena di certi luoghi comuni cui ci ha abituato la rappresentazione ormai tipizzata della camorra al cinema e in tv.
Pericle il nero precisa questa esigenza di originalità narrativa attraverso un film che predilige le atmosfere all’azione, con più interrogativi che risposte. E anche il personaggio di Scamarcio resta enigmatico, d’una laconicità quasi abulica, che resta volutamente indecifrabile. L’attore si cala con convizione non divistica nel ruolo, sposandone la sgradevolezza, anche se l’interpretazione alla fine è piuttosto monocorde.
Purtroppo in Pericle il nero oltre la ricercata costruzione d’ambiente non c’è molto altro: non lo sviluppo dell’intreccio, esile già nel romanzo e non chiarissimo, non l’intaglio dei personaggi collaterali, decisamente opaco (soprattutto don Luigi). Manca soprattutto, al di là della scelta d’una oscurità dilagante da perenne autunno nordeuropeo, una strategia incisiva nella costruzione d’una narrazione scandita in inquadrature. Così l’impaginazione visiva resta illustrativa, senza diventare davvero un racconto in immagini. Non mancano intuizioni: come il fatto che alla fine Pericle finisca per confrontarsi col mare di Calais, perché il demone meridiano si fa sentire, e per un napoletano quello marino è l’unico sfondo possibile su cui proiettare una promessa di futuro. Ma il film, nella sua preoccupazione di sottrarsi agli stereotipi della napoletanità, finisce poi per sfociare in un certo romanticismo da eroe noir non particolarmente originale.