Chi avrebbe immaginato di trovare nello stesso film Billie Holiday e Billy Wilder, l’operetta di Gilbert e Sullivan e I’ll tell me ma, canto traditionale irlandese dell’Ottocento? Basta questo a rendere istintivamente simpatico The Dressmaker, film australiano diretto da Jocelyn Moorhouse che mescola bizzarramente toni e atmosfere, al punto che senza un’attrice singolare come Kate Winslet riuscirebbe difficilmente a stare in piedi.
Il distributore italiano ha aggiunto a The Dressmaker un sottotitolo, Il diavolo è tornato, pensando forse di lanciarlo come una specie di Il diavolo veste Prada, col quale l’unica cosa in comune è che si parla di moda, visto che la protagonista è una sarta. Per il resto non si potrebbero immaginare due storie più lontane: una ambientata nella sofisticata New York del fashion, l’altra in uno sperduto paesino dell’entroterra australiano degli anni Cinquanta. Tilly (Winslet) è tornata nella natia Dungatar per reincontrare l’eccentrica madre (Judi Davis), ma soprattutto per trovare delle risposte al grande trauma della sua infanzia. Perché Tilly da bambina fu accusata della tragica morte d’un coetaneo e per questo allontanata dalla comunità.
Il che fece la sua fortuna, dato che abbandonata l’asfittica provincia australiana andò in Europa e divenne così brava da lavorare addirittura nell’atelier di Balenciaga. Ma a un certo punto bisogna fare i conti col passato, soprattutto quando non si riesce a ricordarlo chiaramente. A Dungatar sono ancora tutti lì, come se il tempo si fosse cristallizzato: quella comunità maldicente sempre pronta ad additarla come una poco di buono. Ma Tilly le sempliciotte le conquista col suo talento da stilista e confeziona loro abiti che le fanno sentire improvvisamente dive – e intanto conduce le sue indagini e cova la vendetta.
Tenendo conto degli infiniti colpi di scena di una trama fin troppo disinvolta, in The Dressmaker ci sono almeno la commedia brillante e quella romantica, il melodramma, la tragedia e il thriller con risvolti quasi horror. Non bastassero i generi, la Moorehouse si diverte a giocare anche con gli stili, per cui si va dai toni da spaghetti western a situazioni (e pettinature) che sembrano uscite da Un angelo alla mia tavola di Jane Campion. Anche come caratteri il film non scherza: c’è il bravo poliziotto con la tendenza al travestitismo (Hugo Weaving), il belloccio sentimentale innamorato della protagonista (Liam Hemsworth), il matto del paese, la maestra cattiva, il gobbo malefico, le comari pettegole, il mefistofele che tira le fila del complotto.
C’è davvero di tutto in The Dressmaker, con troppe giravolte e troppi finali che si fatica a ritenere credibili. Ma c’è il rischio di divertirsi e affezionarsi a queste figurine catapultate nel bel mezzo del deserto, soprattutto se non si pretende una grande coerenza narrativa e ci si lascia trascinare da musiche rétro, colori e costumi. In altri tempi un film come The Dressmaker avrebbe fatto delirare gli appassionati del camp. Oggi non sembra più tempo, e col suo stile non sopra, ma fuori dalle righe, credo che difficilmente troverà un pubblico disposto ad adottarlo.