Volver è il verbo scelto da Pedro Almodóvar nel 2006 come titolo del suo sedicesimo lungometraggio. Un termine intrigante, che significa “ritornare”: e questa è certamente l’accezione principale della parola cui pensa il regista per un film incentrato su una giovane madre, Raimunda (Penélope Cruz) la quale, persi entrambi i genitori anni prima in un incendio, deve ritornare sui suoi passi e nella cittadina di provincia in cui è cresciuta – come Almodóvar, nato in un piccolo centro in Castiglia – per fare i conti col passato e con se stessa. “Volver” però vuol dire anche “girare”: come il tempo che si riavvita circolarmente su di sé attraverso il gioco di riappropriazione della memoria; e come le pale eoliche che dominano il paesaggio, il movimento delle cui eliche pare apparentemente insensato, ma è invece un modo per accumulare energia e, metaforicamente, rafforzarsi.
Con Volver Almodóvar realizza, ancora una volta, un film “tutto su mia madre”. E quindi è un ritorno per lo stesso regista, che si riappropria dal grande tema della figura materna, che attraversa integralmente il suo cinema, segnato da madri cattive (Tacchi a spillo) e madri martiri (Che ho fatto io per meritare questo?). Al centro di Volver invece c’è Irene (Carmen Maura), una madre data per morta, ma che secondo i superstiziosi paesani appare talvolta come un fantasma, sulle cui tracce si mettono Raimunda e la sorella Sole (Lola Dueñas), che hanno ancora tanti conti in sospeso con lei. E stavolta Almodóvar usa uno stile che sorprende per la sua calibrata classicità, lontana sia dalle giocose e barocche intemperanze di gioventù, sia dal formalismo più esteriore e i toni concilianti dei grandi successi internazionali di Tutto su mia madre e Parla con lei.
Volver per certi versi è una ricapitolazione del cinema di Almodóvar – la centralità dell’universo femminile, la dialettica tra provincia e città, il cinema come filtro attraverso cui raccontare, raccontarsi, reinventarsi –, depurato però di uno dei suoi grandi leitmotiv, ossia il tema del desiderio. Volver è un film di legami affettivi fortissimi e grandi passioni (basterebbe ad attestarlo la presenza del colore rosso, che invade letteralmente l’inquadratura), ma senza desiderio, con donne che hanno escluso l’universo maschile e la sessualità dal loro orizzonte. Cosa che crea un vistoso effetto di dissonanza nella protagonista Penélope Cruz, che possiede una sensualità prorompente – che a molti ha ricordato la Loren –, eppure imbrigliata. Raimunda rivolge tutta l’enorme carica emotiva nella difesa della giovane figlia e nella ricerca della madre, mai nella costruzione di una relazione affettiva o sessuale con un uomo.
E di maschi non c’è quasi l’ombra in Volver: ce n’è uno solo, il marito meschino e cattivo di Raimunda, di cui lei e la figlia si sbarazzano quasi subito. Gli altri uomini invece, come mostra la bellissima sequenza d’apertura in un cimitero – un carrello laterale sul quale i titoli di testa entrano in direzione opposta –, sono tutti morti, e le vedove si prendono cura delle loro tombe spazzate da un vento talmente implacabile da, pare, rendere folli.
In Volver, poi, ancora una volta, c’è il gusto della cinefilia: che Almodóvar non usa mai con sapore sterilmente citazionista, ma come filtro attraverso il quale accedere ai propri sentimenti e reinventarsi. Stavolta attingendo non tanto al repertorio del melodramma ma, dato lo stile meno fiammeggiante e più quotidiano del film, al neorealismo – viene mostrata una sequenza di Bellissima di Visconti con la Magnani – e all’Hitchcock della Congiura degli innocenti, con l’ingombrante presenza d’un cadavere che ogni tanto riaffiora. Ma c’è anche un sorprendente riferimento a Carl Theodor Dreyer, ascetico maestro danese d’un rigore stilisticamente lontanissimo dalle usuali corde di Almodóvar, che il regista spagnolo usa per tratteggiare il personaggio di Agustina (Bianca Portillo), un’altra donna alla ricerca d’una madre perduta, esemplata fisicamente sulla femminilità androgina, mistica e patibolare della Renée Falconetti de La passione di Giovanna d’Arco.
Volver è un film interamente al femminile: racconta di figlie, come Raimunda e Agustina, sulle tracce del fantasma materno; e madri come Irène che riappaiono dal passato, inquieti spiriti d’oltretomba alla ricerca del perdono per i peccati commessi. Almodóvar in questo film calibra in maniera sorprendente i colpi di scena e i momenti di commozione, delineando un felice itinerario di rinascita, però segnato da un basso continuo doloroso, che non impedisce alle protagoniste di andare avanti, ma colora le loro scelte d’una sfumata e luttuosa malinconia. Il passato, ribadisce il regista, è una terra che possiamo attraversare e il viaggio a ritroso può condurre alla risoluzione delle angosce. Ma è un viaggio che lascia cicatrici. Perché il lieto fine ha sempre un prezzo.