Non appena in The Pills – Sempre meglio che lavorare vediamo Luca Vecchi, Luigi Di Capua e Matteo Corradini in bianco e nero intorno al tavolo, locandina del Cacciatore alla parete, dialoghi sulle canne, pellegrinaggio dal kebabbaro, citazioni di Tarantino, Pigneto e Mandrione, capiamo immediatamente che la cosa non potrà funzionare.
Il film dei tre ragazzi romani è troppo debitore delle situazioni e della comicità fulminea della webserie che ha dato loro notorietà. E pur riconosciuti sforzi di scrittura e adattamento al linguaggio cinematografico, le arguzie da youtube trasferite su grande schermo non hanno lo stesso effetto. A meno di non appartenere al pubblico che ne conosce a menadito i tormentoni e sa decrittare un gergo inesorabilmente chiuso dentro il raccordo anulare e quello specifico ambiente giovanil-giovanilistico. Chissà non sia questa l’operazione del produttore Valsecchi, che dopo il successo di Zalone potrebbe essere alla ricerca di talenti capaci d’intercettare target di nicchia.
Curiosamente, The Pills – Sempre meglio che lavorare fa pensare per certi versi proprio allo Zalone di Quo vado? Perché i bamboccioni Luca, Luigi e Matteo, trentenni in perenne crisi postadolescenziale che dicono no alla vita senza nemmeno provarci, sembrano i fratelli minori del fannullone Checco. Il quale l’ha sfangata solo perché gli hanno garantito un posto fisso, ben pagato e privo di responsabilità, nel quale dissimulare l’immaturità congenita. Al contrario i Pills, mancando una rete che li salvi dai contraccolpi dell’età adulta, scelgono di lasciar perdere prima ancora di cominciare.
In verità Luca (anche regista del film) ci prova pure, buttandosi in innumerevoli lavori precari, anche se pare spinto più dalla passione per Giulia (Margherita Vicario) che dal concreto desiderio di dare una svolta all’esistenza. Al contrario Luigi è lo sconsiderato integrale, l’ex ragazzo che, manco avesse diciassette anni, occupa il suo vecchio liceo per riassaporare la nostalgia dell’irresponsabilità. Matteo invece, oltre che con la sua, deve fare i conti con l’insicurezza del padre (la figura più esilarante del film), proletario stufo di tenere la testa sulle spalle che, scoperta l’ebbrezza della creatività, gira la webserie “Gli idraulici”, fa foto fighette alla Terry Richardson de noantri e va a Berlino a inseguire vocazioni velleitarie.
La crisi insomma non riguarda solo il microcosmo ombelicale di Luca, Luigi e Matteo. The Pills – Sempre meglio che lavorare ha ambizioni squilibrate, palesi anche nella regia, curata ma con superflui ammicchi stilistici (gli immancabili timelapse). Però come sintomo di una condizione di confusione generale – non circoscritta ai giovani – in cui fuga e autoreclusione diventano la risposta a una realtà troppo al di sotto delle aspettative, il film riserva qualche intuizione non banale. Come la scena del bacio tra Luca e Giulia. Sembra un semplice, autentico momento di felicità: ma Luca entra nella fontana mentre Giulia gli dice “Come here”, come fosse Anita Ekberg ne La dolce vita. E dopo il bacio arrivano musica e fuochi artificiali. Quindi nessuna gioia sincera, ma solo versioni fotocopia (degradate) di altri film. Di vera felicità non c’è traccia. E se le cose stanno così, perché darsi da fare?