Di Quo vado? il nuovo film di Luca Medici alias Checco Zalone, diretto dal sodale di sempre Gennaro Nunziante, s’è già detto tutto. Anche perché dopo i 52 milioni di Sole a catinelle pare che da Zalone dipenda la sopravvivenza del cinema italiano, e allora critici, pubblico, esercenti erano lì ad attendere ansiosi al varco la nuova fatica del comico pugliese. A leggere le prime recensioni il giudizio è positivo: è il suo film più riuscito, il più politico, che in modi ridanciani fotografa in presa diretta i cambiamenti sociali. E subito si parla di commedia all’italiana, cioè dell’unica volta in cui il nostro cinema ha saputo essere colto e popolare allo stesso tempo, facendo film di qualità però sintonizzati sul (e col) paese reale.
Raccontare l’Italia: questo fa Quo vado?, con le ambizioni d’una produzione, ha sottolineato il produttore Pietro Valsecchi, che non ha badato a spese: 16 settimane di lavorazione, budget milionario, set internazionale. E questo non solo perché – in controtendenza con un cinema che, complice l’attivissima film commission locale, sembra ormai tutto girato in Puglia – il pugliese Zalone fosse stufo di fare film a casa propria. Ma soprattutto perché gli autori hanno intuito che per capire davvero cosa sono l’Italia e gli italiani di oggi è necessario allargare lo sguardo oltre i confini: inseguendo le tracce di cervelli in fuga, di nuovi italiani globalizzati, iperconnessi e meno timorosi, i quali contribuiscono a plasmare un’identità nazionale mutante che non possiamo eternamente ridurre al provincialismo da strapaese.
Quo vado? mette in scena un conflitto stridente tra vecchia e nuova Italia, vecchi e nuovi italiani, e solo dall’incontro-scontro tra di loro emerge il ritratto veritiero del paese attuale. Perciò i protagonisti sono due, Checco e Valeria (Eleonora Giovanardi). Checco che, da bambino, alla domanda “cosa vuoi fare da grande” risponde “il posto fisso”, sogno di sicurezza esistenziale coronato da adulto (adulto si fa per dire; immaturo, mammone, con eterna fidanzata golosa solo della sua “fissità”). Checco è il campione d’una Prima Repubblica ideologicamente incardinata sulla vita a tempo indeterminato, supremo privilegio da casta: la casta della gente comune, in un mondo del lavoro di raccomandazioni, favori e bustarelle. Una realtà felice e fiabesca, con l’homo burocraticus che arriva in ufficio a mezzogiorno trovando il cartellino già timbrato e passa il tempo tra un caffè e una chiacchiera da corridoio.
Questo eden dei fannulloni è spezzato dalla spending review, incarnata dall’inflessibile dirigente ministeriale Sironi (un’autoironica Sonia Bergamasco), che spinge tutti i dipendenti ad accettare dimissioni con buonuscita. Tutti tranne Checco, disposto a sopportare qualunque trasferimento e mobbing pur di non perdere il posto fisso tatuato nel suo dna (consigliato da un ex politico maneggione, un indovinatissimo Lino Banfi). La Sironi, per piegarlo, lo sbatte in Norvegia, dove Checco incontra l’altra metà del cielo, la ricercatrice Valeria. Che non è solo la donna di cui s’innamorerà, ma rappresenta un nuovo modello di italiano possibile, precario, poliglotta, cosmopolita (ha avuto tre figli da tre uomini di paesi diversi, mentre Checco al massimo in vita sua ha fatto i dieci metri in bicicletta da casa all’ufficio). Valeria è l’Italia che cerca modernità e indipendenza: aperta dove Checco è chiuso, egoista, ripiegato sulla cecità d’un italianissimo tornaconto personale.
Quo vado? gioca le carte (e le battute) migliori nel processo di rieducazione alla civiltà cui è sottoposto Checco durante l’esperienza norvegese, che gli schiude dimensioni esistenziali per lui insospettabili, ovviamente interpretate all’italiana, ossia esagerando, arrivando a esibire un esilarante pizzetto biondo da eccesso di immedisimazione. È sintomatico che questa riprogrammazione identitaria per risultare efficace abbia bisogno del purissimo scenario dell’estremo nord, dove ci sono solo neve ed orsi polari e nulla rimanda neanche lontanamente alla patria. Perché, si sa, l’italiano è sentimentale, e allora basta accendere un televisore dove trasmettono il festival di Sanremo con Al Bano e Romina e parte la nostalgia canaglia, il salmone agrumato non basta più e riaffiora la voglia delle fettuccine di mammà. Si può cambiare per amore, ma alla fine si resta ciò che si è, e l’uomo col cuore a forma di posto fisso non può modificarsi geneticamente.
Quo vado? è un’intelligente scorribanda con i pregi e alcuni limiti del cinema di Zalone. Pregi: Medici e Nunziante sanno che la commedia funziona se è cattiva, e allora ingigantiscono i dettagli di un carattere italiano individualista, superficiale, infingardo. Era dai tempi di Fantozzi che non si vedeva un ritratto del mondo impiegatizio così atroce, impegnato solo nell’arroccata difesa di privilegi d’assoluto egoismo (sintetizzati dal para-Celentano dell’hit istantanea La Prima Repubblica). Difetti: il film annacqua la potenziale ferocia sordiana nel dolciastro di un sentimentalismo che affloscia il finale, eccessivamente buonista (che pure mira a dire come l’incontro tra i lontanissimi Checco e Valeria possa produrre una sintesi). Manca purtroppo un linguaggio comico visuale autenticamente cinematografico e la messinscena è elementare, con quella tedenza alla cartolina turistica tipica dei film girati all’estero negli anni Sessanta. In questo la richiamata commedia all’italiana, che possedeva stile e professionalità assai solidi, è ancora lontana. Ma questo cinema-specchio ci rappresenta, ed è uno dei pochi a interrogarsi davvero oggi sulla nostra identità in trasformazione.