Che Chiamatemi Francesco. Il papa della gente voglia evitare l’agiografia è evidente. Infatti il regista Daniele Luchetti, nel film prodotto dalla TaoDue di Pietro Valsecchi senza sponde vaticane, focalizza il racconto sugli anni Settanta della dittatura di Videla in Argentina, quando Jorge Bergoglio (Rodrigo de la Serna) era responsabile provinciale dell’Ordine dei Gesuiti.
È il periodo più controverso della sua vita, sul quale, all’indomani dell’ascesa al santo soglio, s’innescò una polemica tra accusatori e innocentisti circa la posizione tenuta dal prelato nei confronti del regime. Chiamatemi Francesco irrobustisce il proprio punto di vista, ovviamente innocentista, attraverso un approccio realista, scegliendo di girare in Argentina dopo aver raccolto molte testimonianze dei protagonisti di quella stagione.
La dittatura di Jorge Videla è una tristissima pagina di storia contemporanea: tra il 1976 e il 1981 l’allora presidente, giunto al potere con un colpo di Stato, si rese protagonista di una sistematica violazione dei diritti umani, torturando e uccidendo migliaia di oppositori del regime, crimini che gli sono costati la condanna all’ergastolo.
Chiamatemi Francesco come rappresenta il ruolo di Bergoglio in quella temperie? Il film fa una scelta di trasparenza. Non silenzia la drammaticità della dittatura. Al contrario, Luchetti usa i toni più incisivi e autoriali per le parti dedicate alle violenze: una sequenza cupissima sulle torture – debitrice di un film come Garage Olimpo –, e un’altra, volutamente lenta e ripetitiva, sui militari che gettano in mare dall’aereo persone narcotizzate.
In tutto questo Bergoglio è il prete che attua dall’interno una strategia di resistenza, nascondendo e aiutando a scappare i perseguitati dal regime, cercando una mediazione tra Chiesa istituzionale e difesa dei più deboli. Non manca in Chiamatemi Francesco la vicenda più ambigua, quella dei gesuiti Orlando Yorio e Francisco Jalics, sequestrati dai militari perché predicavano il Vangelo nelle baraccopoli dei poveri, ispirandosi alla Teologia della Liberazione. L’allora responsabile provinciale Bergoglio, il film in questo è onesto, avvertì i prelati dei rischi che correvano, ma non scavalcò le gerarchie ecclesiastiche e non riuscì a impedirne il rapimento.
Quando si parla di dittatura, il confine tra comportamenti giusti e sbagliati diventa incerto e non giova porsi in una posizione giudicante fondata su un astratto e non situato metro di valutazione. Chiamatemi Francesco cerca appunto di contestualizzare il giudizio, immergendo la macchina da presa in uno spazio e un tempo verosimili, motivando così le ragioni delle scelte di Bergoglio sulla base della concreta situazione storica.
Il giudizio sulla sua statura emerge più netto nell’allontanarsi dagli anni della dittatura, come nella messa che officia in una baraccopoli per fare da scudo alle ruspe giunte per abbatterla. Una messa montata in parallelo con il Conclave che lo elegge pontefice, a indicare – il punto di vista qui diventa esplicito – quanto la propensione agli ultimi sia il pilastro fondativo della predicazione di papa Francesco. Va dato atto a Luchetti e Valsecchi di aver evitato l’effetto santino da fiction televisiva o, almeno, di aver fatto un’agiografia intelligente, che deve molto all’interpretazione sobria, senza eroismi o misticismi di maniera, del protagonista.