Non sono la persona più indicata a recensire Spectre, ventiquattresimo episodio della saga di James Bond, non essendo mai stato affascinato da 007, anche quando a incarnarlo era il magnetico Sean Connery.
Nonostante le idiosincrasie personali, però, sarebbe impossibile non notare il corposo sforzo di riscrittura compiuto dal reboot sul personaggio Bond, coinciso con il nuovo interprete Daniel Craig, per intagliare un ritratto all’altezza dei tempi della spia con licenza di uccidere creata da Ian Fleming. Il primo risultato, emerso da uno spiritoso calcolo realizzato dall’Economist, è che l’ultimo Bond è il meno sciupafemmine di sempre, e il bevitore più forte di tutti. Ma, scherzi a parte, l’elemento più rilevante, coinciso con la presenza dietro la macchina da presa di Sam Mendes nei due ultimi episodi, il celebrato Skyfall e adesso Spectre, è il tentativo di costruire il profilo tridimensionale di un uomo, sottraendolo all’eterno presente dell’avventuriero senza storia la cui vita coincide con il tempo delle sue missioni.
Il Bond di Mendes ha un passato e un’identità che va oltre l’evasivo doppio zero – simbolo d’un anonimato assoluto – del suo “nome” di battaglia. E così il dittico Skyfall-Spectre ricostruisce l’albero genealogico e il profilo psicologico del protagonista. E se il primo capitolo era dedicato alla madre putativa, la “M” di Judi Dench, il secondo è nel nome del padre. In entrambi i film poi, a completare un cupissimo “ritratto di famiglia” , i cattivi sono praticamente fratellastri di Bond, Javier Bardem prima e adesso il Franz Oberhauser di Christoph Waltz.
Poi però c’è la legge del franchise, la forza di un brand immarcescibile con regole alle quali è difficile sottrarsi. E se Skyfall trovava un intelligente equilibro tra blockbuster e cifra autoriale, grazie alla forza della scrittura e al villain di Bardem, capace di coniugare il sadismo tipico dei cattivi bondiani con una nota di sofferenza psicologica non scontata, Spectre non sembra ripetere l’exploit. Colpa certo del manierato malvagio Oberhauser (Waltz è un eccellente attore, ma quando sbaglia un ruolo lo sbaglia in pieno, si pensi al macchiettistico protagonista di Big Eyes di Tim Burton). Ma è anche l’intreccio a non riservare sorprese, con la prevedibile organizzazione che mira a costruire il grande fratello della sorveglianza telematica totale (il caso Snowden docet).
Alle meraviglia degli effetti digitali l’azione di Spectre antepone la concretezza analogica di inseguimenti e scazzottature vecchio stile. Ma quando, dopo uno scontro in cui l’energumeno di turno ha letteralmente demolito un treno per ucciderlo, vediamo Bond riemergere senza un graffio e prontissimo ad amoreggiare con la sua donna (Léa Seydoux) mentre attaccano i violini, è chiaro che la più elementare verosimiglianza è andata a farsi benedire. E destano perplessità anche certi tocchi autoriali di Mendes: come il tema del memento mori nella sequenza d’apertura del Giorno dei morti a Città del Messico, carnevale in cui migliaia di persone, Bond compreso, indossano maschere da scheletro. Come scena d’azione è appassionante, ma la metafora non è proprio all’insegna della sottigliezza.