Chissà cosa ci riserverà l’attesissimo The Revenant con Leonardo DiCaprio, uscita prevista a Natale, nuova fatica dell’ormai riverito Alejandro González Iñárritu, un regista abituato a spiazzare gli spettatori con soluzioni visive e narrative stupefacenti. Il film precedente, l’asso pigliatutto degli Oscar 2015 Birdman, era costruito dal primo all’ultimo minuto su un lunghissimo piano sequenza, un virtuosismo formale che lasciava sbalorditi. E prima, il regista messicano si era fatto ossa e fama in una trilogia sui temi del fato e della morte, che comprende Amores Perros (2000), il film della consacrazione 21 grammi (2003) e Babel (2006). Opere stilisticamente omogenee, grazie al fondamentale contributo dello sceneggiatore Guillermo Arriaga, costruite secondo una peculiare struttura che altera la normale cronologia dei fatti, rimescolando passato presente e futuro in una struttura dai continui andirivieni temporali.
La polverizzazione dei tempi della narrazione è diventata un modello mainstream, dopo i primi tentativi del Tarantino di Pulp Fiction e la canonizzazione tramite opere come il vertiginoso Memento di Nolan e, su un piano parallelo, Se mi lasci ti cancello della coppia Gondry (regista) e Charlie Kaufman (sceneggiatore). In questi due film, il primo su un uomo affetto da perdita della memoria a breve termine, il secondo su un tizio che si fa estirpare i ricordi d’una tormentata storia d’amore, la manipolazione della linearità del racconto è legata tematicamente al deficit cognitivo dei personaggi. E quindi le storie procedono come fossero soggettive riprese dal cervello dei protagonisti, nei quali buchi e salti temporali sono l’effetto di lacune e vuoti d’una psiche claudicante.
Per quale ragione i film di Iñárritu sono costruiti allo stesso modo? Prendiamo 21 grammi e seguiamone la trama, ricapitolandola nell’ordine naturale: il professore di matematica Paul (Sean Penn) è in attesa del trapianto di cuore, mentre la moglie (Charlotte Gainsbourg) vuole un figlio con l’inseminazione artificiale. Un ex galeotto redento dalla fede, Jack (Benicio Del Toro), investe e uccide un uomo con le due figlie: il suo cuore viene donato a Paul, il quale poi conosce la vedova Christina (Naomi Watts), che annega il suo dolore nella droga, e se ne innamora. Lei gli chiede di uccidere Jack, che ha già tentato il suicidio. I tre si incontrano in uno squallido motel per la resa dei conti finale. Cardiopatici, morti violente, tossicodipendenza, sensi di colpa, amori e vendette, maternità spezzate e negate: ce n’è abbastanza per confezionare un turgido melodramma oppure, a premere appena un po’ il pedale del ricatto emotivo, un fotoromanzo strappalacrime.
Qui interviene Iñárritu, col suo gioco di prestigio: rimescola carte e tempi, rendendo per la prima metà del film quasi impossibile capire l’ordine degli avvenimenti, lasciando fluttuare i personaggi tra brandelli narrativi che singolarmente hanno anche un senso, ma che sono difficili da ricollocare nella storia considerata nella sua interezza. Ciò crea una forte sensazione di tensione e ambiguità, per l’impossibilità di capire chi sta facendo cosa e perché; e serve inoltre a mascherare la struttura di partenza, vestendo materiali buoni per una soap opera dei panni d’una raffinata operazione d’avanguardia.
La ricetta di Iñárritu sembra sempre la stessa: un gran lavorio sul piano dell’estetica dispiegato per dissimulare una sostanza narrativa prevedibile. Non si tratta solo della scomposizione temporale: in 21 grammi ci sono una fotografia antinaturalistica, sporca e granulosa, e una recitazione a sbalzi, ora sonnambolica ora sovraccarica, che fanno immediatamente rubricare la pellicola nella prestigiosa categoria del “film d’autore”. Ma poi, di contro, c’è il dispiegamento di una vera e propria enciclopedia del dolore: inquadrature insistite e in primissimo piano dei protagonisti che si disperano, si drogano, si mortificano, si mutilano, con un effettismo che svela la natura di un’opera che punta, come ha ammesso Arriaga, sulle alte temperature emotive e, aggiungiamo noi, la lacrima un po’ facile. Iñárritu è il campione di un genere particolare, il “film d’autore di massa”, disinvolta mescolanza di espedienti formali ricercati e temi assai tradizionali, per un cinema che mira in alto e colpisce basso.