Enzo Salomone è un attore d’una razza particolare. È partito più di quarant’anni fa dal teatro, passando poi attraverso cinema (lavorando con Verdone, Mario Martone, il Pif de La mafia uccide solo d’estate) e televisione, recitando anche nella popolarissima soap Un posto al sole. Ma la sua vocazione è un’altra, scoperta alla radio e affinata negli innumerevoli reading di cui è stato protagonista: diventare una “voce”.
“Trent’anni di radio mi hanno insegnato a essere qualcosa, qualcuno, senza un corpo”, dice Salomone. Il quale, forte di una tensione alla sperimentazione che gli proviene dalla formazione sulle tavole del palcoscenico, ha cominciato a mettere in dialogo quella voce con la musica, creando un personalissimo linguaggio teatrale. Negli anni ha realizzato recital di grande fascino, come quello in cui mescolava il testo del Woyzeck di Büchner con una partitura di Pierre Boulez, eseguita davanti al grande compositore francese. O le avventure insieme allo storico gruppo di musica contemporanea Dissonanzen, con il quale è appena stato a New York, invitato dall’Istituto di cultura italiano, per una versione musicata e recitata dal vivo di un classico del cinema muto, Assunta Spina.
In origine, comunque, c’è il teatro, l’esordio alla fine degli anni Sessanta col Centro Teatro Esse, poi divenuto Libera Scena Ensemble, di Gennaro Vitiello. Una grande novità per la sonnacchiosa scena napoletana dell’epoca: “Noi ne parliamo sempre in termini di avanguardia: ma in effetti Vitiello – ricorda Salomone – lavorava su un altro binario, il recupero dei classici del Novecento. L’aspetto innovativo stava nello sposare i classici con la ricerca sul folklore. Così nacquero gli spettacoli con i versi di Brecht tradotti in napoletano, adattati al ritmo delle musiche di artisti di estrazione popolare. Portavamo dentro lo spettacolo pezzi di cultura popolare, rispettando allo stesso tempo il dettato del testo brechtiano”.
Viene spontaneo chiedere a Salomone se esista una specificità dell’attore napoletano. “Sicuramente – ribatte –, basta vedere il modo in cui ci muoviamo. Non c’è persona proveniente da una cultura con un’antropologia e una gestualità diversa che non rimanga estasiata di fronte a questo teatro vivente che è Napoli. Sembriamo tutti attori bravissimi su un perenne palcoscenico”. Ma è un palcoscenico, sottolinea Salomone, che rischia di trasformarsi in un presepe, perché i napoletani sono troppo accondiscendenti verso una tradizione che non mettono abbastanza in discussione.
“Ci vorrebbe uno strumento – continua Salomone – per togliere tutte le convenzioni che inquinano la tradizione. Tradizione, diceva Gustav Mahler, non è conservare la cenere, ma ricordarsi della fiamma”. Per cui la prima cosa da fare è sottrarsi alle regole che impongono uno stile uniforme e immodificabile: “Ricordo che una volta – aggiunge Salomone – un importante attore che era in platea durante la recita di un classico napoletano, sentenziò: ‘Sta battuta nun se dice accussì’! Questo è precisamente quello che il grande Peter Brook definiva ‘teatro mortale’: un teatro che non è morto, ma rende morti, col suo prontuario di battute che devono essere recitate così e solo così”.
Ma allora cosa fare per salvare la fiamma viva della tradizione? La conclusione di Salomone è drastica: “Bisogna scardinare questo tempio della routine, comprendendo che sopra quei testi, quelle poesie, si è depositato un mare di convenzionalità. Viva quella legge che permetterà di mettere in scena testi di teatro napoletano a non meno di duecento chilometri da Napoli, per almeno vent’anni”. Chissà come verrà accolta questa provocazione dalla scena teatrale partenopea.