Checco (Zalone) abbandona il lavoro che non lo valorizza per diventare “imprenditore di se stesso”. Si mette a vendere aspirapolveri, mestiere nel quale è bravissimo, finché non si esauriscono i parenti a cui piazzarli. Intanto la moglie Daniela (Miriam Dalmazio) rischia di perdere il posto nell’azienda tessile e inizia con le colleghe una battaglia sindacale. Checco, ridotto in bolletta, per tener fede alla promessa fatta al figlio Niccolò (Robert Dancs) lo porta in vacanza, inventandosi un fantozziano viaggio low cost in Molise. L’incontro con la ricca Zoe (Aurore Erguy) rivoluziona i piani: Checco coi suoi modi ruspanti sblocca il “mutismo selettivo” del figlio della donna, che per ringraziarlo lo invita a continuare il viaggio con lei. Trasportandolo in un mondo di lusso e alta finanza, imprenditori truffaldini e massoni, artistoidi di sinistra e santoni.
Sole a catinelle ha incassato 52 milioni di euro, il maggior successo della storia del cinema italiano. Solo per questo andrebbe preso assolutamente sul serio. Ma c’è molto altro nel terzo film da protagonista di Checco Zalone, diretto come sempre da Gennaro Nunziante. C’è l’ambizione di offrire un ritratto smaliziato del paese Italia, fotografandone con occhio satirico tipi paradigmatici di destra e sinistra (più di sinistra, vedi l’anticomunismo viscerale di Checco), dai padroni con la fabbrichetta che piangono miseria e portano i soldi all’estero ai radical chic mollemente sdraiati sullo yacht che si sentono vicini ai problemi della classe operaia.
Il protagonista funziona da cartina di tornasole che, attraverso la sua estraneità all’ambiente in cui è inserito, ne mette in luce retoriche e magagne. Checco da un lato è il classico carattere comico, spontaneo e lunare, ignaro di quel che gli accade intorno, come quando partecipa al giuramento della massoneria confondendola con una masseria; dall’altro non ha complessi d’inferiorità e sa essere aggressivo e smaliziato, soprattutto quando si tratta di soldi – Checco sa tutto del Taeg, che non è una questione di alta finanza, ma una cosa contro cui sbatte il grugno l’italiano medio che non può permettersi di comprare in contanti beni essenziali.
Come ha notato Michele Serra, il personaggio di Zalone ricorda Homer Simpson, “del quale ricalca la spensierata ingordigia, il consumismo crapulone e l’impenetrabilità ai conflitti psicologici”. Checco ha uno sguardo da ingenuo praticone, da ignorante intelligente, col gusto per la bella vita e un’ottica alla fin fine di buon senso, da uomo della strada, nella quale il pubblico si è evidentemente riconosciuto.
Sono tante le situazioni in cui emerge la sua distanza dal mondo dorato e ipocritamente politically correct dei ricchi: c’è il set su cui si sta girando “Eutanasia mon amour”, con protagonista anoressica cui Checco allunga una pagnotta, mentre l’accigliato regista di sinistra s’arresta non appena sente “puzza di borghesia” (e chissà quanti soldi pubblici il Mibac darebbe a un’opera di “interesse culturale” come questa, mentre Sole a catinelle non ha avuto un euro di finanziamento); il maestro di yoga che insegna la respirazione e Checco dice “no, grazie, mio figlio ha imparato a respirare fin da piccolo”; la pelosa serata di beneficenza dei ricconi, col protagonista che, per reagire alle dolorosa vista delle drammatiche immagini del villaggio africano, s’ingozza con champagne e aragosta; il supermanager (un inedito e autoironico Marco Paolini) intervistato a una specie di festival dell’economia a Portofino che sa tutto di finanza e niente di economia reale, e Checco con due battute gli aizza contro il popolo delle partite iva stritolate dalle tasse.
In Sole a catinelle si vedono sindacalisti e bandiere della Cgil, operaie e paeselli molisani con le case piene di foto dei parenti defunti: un mondo completamente eclissato dal cinema italiano mainstream, dove si parla quasi sempre di tormenti – o divertimenti – di classi medie e medioalte, e quasi mai della vituperata “gente”, infatti sempre citata snobisticamente tra virgolette.
Sole a catinelle è sorprendentemente casto (c’è una sola gag davvero volgare), senza la bellona di turno e inquadrature ad altezza glutei, con bambini credibili che riescono persino a recitare. Probabilmente il film è piaciuto anche per quest’aria di pulizia, che unisce alla diffidenza verso i ricchi (ma non per i loro soldi, che tutti vorrebbero) l’attenzione ai valori veri in cui credono le persone comuni (se poi li pratichino è un’altra questione). E infatti Checco, pur essendo evidentemente un maschio alfa attratto dalle donne, ama strenuamente sua moglie (lui non direbbe mai “la mia compagna”). E sebbene gli piaccia il denaro, non fa nulla d’illegale (al contrario dei grandi industriali che gli capita di conoscere) e grazie a lui si salva dal fallimento anche l’azienda di Daniela.
Sole a catinelle da un lato aggredisce i ricchi di destra e sinistra, le loro mode balzane, i loro tic linguistici; dall’altro accarezza la gente comune, i loro valori e tradizioni che sembrano in disuso e poco eleganti. E fa un cinema popolare e di buon senso, parlando alla “pancia del paese” (ma Zalone è il primo a ridere di una definizione del genere). Grazie al quale vediamo dal buco della serratura un mondo che, a colpi di “mutazioni antropologiche” e “miracoli italiani”, siamo tutti sicuri non esista più, ma che forse, fosse pure solo sul piano dell’immaginario, riveste ancora un ruolo importante. E per questo merita di essere indagato e raccontato, come fa con intelligenza sicura Checco Zalone. Riuscendo anche a farci ridere parecchio.