Caleb (Domhnall Gleeson) è un programmatore del potentissimo motore di ricerca Blue Book (voluto il riferimento a Wittgenstein) che vince una settimana nella proprietà esclusiva del Ceo della società, il solitario Nathan (Oscar Isaac). Non è una semplice vacanza premio: il geniale imprenditore vuole che il suo dipendente valuti le capacità intellettive di un robot altamente evoluto che ha costruito con fattezze femminili, Ava (Alicia Vikander). Caleb la sottopone al test di Turing, ideato per capire se una macchina sia in grado di esprimere un pensiero autonomo, non quindi un semplice meccanismo di selezione di risposte predeterminate, ma una vera e propria intelligenza indipendente e creativa.
Ex Machina, primo film da regista dello sceneggiatore Alex Garland (The beach, 28 giorni dopo, Dredd) è chiaramente una sintesi e un aggiornamento di tutte le problematiche legate all’intelligenza artificiale, nel quale si mescolano questioni filosofiche circa la natura stessa del pensare e domande sul modo in cui macchina e uomo si relazionano tra loro. Da Victor Frankenstein in poi, il protagonista del romanzo di Mary Shelley, l’inventore della macchina pensante ha quasi sempre un profilo prometeico: un creatore che indulge a un’idea di sé quasi divina (Nathan non sfugge al delirio d’onnipotenza), e che dalla creatura pretende un’obbedienza cieca e assoluta. Di cui è spia il fortunatissimo termine che, a partire da un dramma dell’autore ceco Karel Čapek, è stato utilizzato per indicare la macchina: “robot”, che deriva dalla parola “schiavo”.
Quando però la creatura evolve da semplice esecutore meccanico a soggetto dotato di intelligenza e personalità, il rapporto tra uomo e automa necessariamente cambia di segno. È quello che accade a Caleb il quale, messo di fronte a un essere indipendente ed, elemento da non sottovalutare, seducente, non riesce a mantenersi nei confini dell’esperimento scientifico. Con implicazioni di ordine duplice: affettivo, ossia le emozioni che l’uomo prova per la macchina, dall’empatia all’amore; e morale, relative al perché un essere intelligente debba vivere segregato, come fosse un oggetto di proprietà del suo inventore.
Garland sceglie un trattamento a freddo della complessa tematica etico-filosofica. Una struttura da pièce teatrale con un’unità di luogo, la magione di Nathan, asettica e geometrica, immersa nella natura incontaminata e lontana dal mondo abitato; e di tempo, i sette giorni in cui Caleb svolge il suo esame con Ava. In questa rigida cornice i tre personaggi (più la misteriosa assistente, muta e bellissima, di Nathan) si confrontano in un film dai dialoghi fittissimi: che ha il sapore di un esperimento da cavie di laboratorio nel quale tutti, umani e non umani, sono sottoposti a un test, tanto sull’intelligenza quanto sulle attitudini relazionali e comportamentali.
Un film dominato dalla parola, facoltà intellettiva superiore e strumento di coercizione che ogni personaggio, automa compreso, utilizza per sedurre gli altri. Il risultato non è conciliante come in A.I. di Spielberg, nel quale ottimisticamente è l’amore la qualità che rende umani. In Ex Machina, più realisticamente, l’intelligenza ha a che vedere con la capacità di manipolazione, il libero arbitrio e la crudeltà.