La prima inquadratura è una dichiarazione di repertorio di Richard Nixon: ed è subito chiaro quale sarà il tono de La regola del gioco, visto che il presidente americano, protagonista dello scandalo Watergate scoperchiato dal giornalismo d’inchiesta della coppia Woodward e Bernstein, resta il simbolo stesso della corruzione politica.
Gary Webb (Jeremy Renner) non scrive come i due famosi giornalisti per il prestigioso “Washington Post”, ma per il più piccolo “San José Mercury News”. Però è un cronista di razza, e seguendo un caso legato al narcotraffico viene in possesso di una trascrizione del Grand Jury che mette in luce una connessione tra servizi segreti e traffico di cocaina dal Sud America.
Gary segue la pista e trova le prove della relazione tra Cia e narcotrafficanti nicaraguensi, cui viene lasciata la libertà di invadere gli Stati Uniti con la droga perché parte degli utili servono per armare le milizie dei Contras, i controrivoluzionari che osteggiano il governo di sinistra dei sandinisti. “Il fine giustifica i mezzi”, denuncia Gary nel suo articolo dal titolo “Dark Alliance”: e il fine, prioritario per la Cia, è la lotta al comunismo sovietico, nell’ultima propaggine, durante il governo Reagan, dell’interminabile guerra fredda.
L’effetto del pezzo è dirompente, anche perché la droga invade soprattutto i quartieri poveri del paese, abitati in larga maggioranza dalla comunità afroamericana, che chiede a gran voce le ragioni della cinica politica dei servizi segreti. Per Gary lo scoop è un successo e gli frutta addirittura il premio di giornalista dell’anno. Quasi subito, però, Cia e grandi giornali partono al contrattacco smontando il teorema accusatorio, e mettono in dubbio persino moralità e deontologia professionale di Webb. Intimidito, il Mercury lo scarica: così quando va a ritirare il premio, è ormai un giornalista disoccupato e pubblicamente screditato.
Nel raccontare la vera storia di Gary Webb, La regola del gioco di Michael Cuesta (al suo attivo Six feet under, True blood, Homeland) fatica a trovare un equilibrio tra l’iniziale parte investigativa e quella sulle ripercussioni familiari della vicenda, che prendono eccessivamente il sopravvento (forse anche per evitare di infilarsi troppo a fondo nell’intricata materia). Però è onesto nel restituire senza eccessiva enfasi una storia dalla quale nessuno esce pulito: non le istituzioni, invischiate in censurabili traffici; non la stampa, impegnata in una guerra tra giornali grandi e piccoli nella quale a soccombere sono i più deboli.
A farne le spese è proprio Webb, cui Jeremy Renner offre un realistico ritratto di dignità e umanissimi limiti. Anche il discorso del ritiro del premio-beffa, che in un altro genere di film avrebbe rappresentato il momento del riscatto memorabile, qui viene mantenuto sottotono, spento come la fotografia di poche luci e molte ombre. La cifra stilistica del film emerge dalla sobrietà non spettacolare dell’insieme e da alcuni dettagli indovinati, come la sequenza sottilmente polemica in cui Webb scrive il suo duro reportage ispirato da Know your rights dei Clash, il gruppo più politico del rock, che al Nicaragua dedicò un album inequivocabilmente intitolato Sandinista.