Lino Fiorito è uno dei grandi scenografi del cinema e del teatro italiano di oggi. Una carriera che viene da lontano, dagli esordi come pittore negli anni Settanta di una Napoli ribollente di talenti nella musica, nel teatro, nell’arte. Da lì è partito Lino, frequentando la galleria di Lucio Amelio, straordinario agitatore culturale capace di portare a Napoli Andy Warhol e Joseph Beuys e fondamentale per internazionalizzare i linguaggi artistici della città.
“Ho frequentato la galleria di Lucio perché cercavo posti che potessero stimolarmi. Poi grazie a un giovane critico, Giulio De Martino, che organizzò una rassegna di artisti giovani napoletani, ho avuto la possibilità di fare la mia prima mostra e sono entrato in contatto una serie di personaggi che giocavano con fotografia, disegni, quadri, film, e poi il gruppo di Falso Movimento”.
Falso Movimento è la compagnia teatrale guidata dal giovanissimo Mario Martone, fondamentale per il rinnovamento della scena italiana tra anni Settanta e Ottanta, caratterizzata da uno stile cosmopolita aggiornato all’estetica delle arti visive, cinema, elettronica. A Lino si devono le invenzioni visive delle scenografie di spettacoli che hanno lasciato un segno profondo nell’immaginario teatrale contemporaneo, da Tango glaciale (1982) a Ritorno ad Alphaville (1986). Un’esperienza a cui è succeduta quella per Teatri Uniti, la compagnia nata dalla confluenza di Falso Movimento, il Teatro dei Mutamenti di Antonio Neiwiller e il Teatro Studio di Caserta di Toni Servillo. L’incontro con Servillo coincise con la nascita dell’interesse per il cinema: Lino ha curato le scenografie di tutti i film di Paolo Sorrentino fino a Il divo (2008), e poi La guerra di Mario (2005) di Antonio Capuano, Gorbaciof (2010) di Stefano Incerti, La kryptonite nella borsa di Ivan Cotroneo (2011).
Come cambia il lavoro dello scenografo tra teatro e cinema? “A teatro parto dal presupposto che ho un luogo – dice Lino – che devo vestire. Lo scenografo teatrale non deve rispettare le didascalie del testo. Prendiamo Le voci di dentro diretto da Servillo: siamo abituati all’approccio realista di Eduardo de Filippo, l’ambiente borghese con la classica cucina napoletana e la macchinetta del caffè. A me invece premeva sottolineare che gli ambienti erano lindi. È venuta fuori una cucina essenziale, con solo una credenza, tavolo e quattro sedie”.
Con i film è diverso, perché invece di costruire spazi, bisogna individuare delle location: “A cinema lavori più sulla realtà. Si cercano ambienti preesistenti che facciano al caso della storia e che sembrino verosimili. Parto dalla sceneggiatura e mi immedesimo nei personaggi. Nel caso di Gorbaciof, la storia di un impiegato dalla vita misteriosa, inesistente, che si scopre essere un giocatore d’azzardo, ho immaginato una casa che fosse quasi abbandonata, inesistente come l’uomo che la abita”.
Il progetto in corso di Lino è una messinscena operistica, la Bohème diretta da Francesco Saponaro per il teatro San Carlo. Anche qui un lavoro all’insegna dell’originalità, di cui Lino ci mostra in anteprima i bozzetti delle scene e dei costumi. “Invece di ripresentare la solita iconografia da Belle Époque, abbiamo costruito una Parigi di periferia. Non abbiamo realizzato la solita stanza di Rodolfo, ma accenniamo appena a uno spazio ricavato su una pedana, situato su un tetto che si affaccia su di una Parigi all’inizio della rivoluzione industriale, con le fabbriche sullo sfondo. I costumi ricordano la fine dell’Ottocento, ma non c’è niente di delineato. L’obiettivo era alleggerire tutto quello che siamo normalmente abituati a considerare usuale nel teatro dell’opera, per far emergere in primo piano la musica”.
L’obiettivo dello scenografo, quindi, è far risaltare la storia: e la scenografia migliore non è la più vistosa o la più bella, ma quella più funzionale al racconto che si sta narrando. Una fondamentale lezione di stile.