Bambino sudamericano adottato: ci sta. Bambino down: pure. Orfano di padre? Eccolo. Immigrato clandestino? C’è anche quello. È ricco il catalogo de I bambini sanno, il documentario che Walter Veltroni ha dedicato ai giovani tra 9 e 13 anni. Lo è volutamente, per evitare il ritratto edulcorato di una società fatta solo di bimbi benestanti. Ma nonostante il campionario da tv del dolore, dal ragazzino nel campo nomadi a quello ammalato di leucemia, sembrano tutti felici e ottimisti i bambini dell’ex sindaco di Roma, grazie anche a una messa in scena che li isola dallo sfondo e lascia fuori dalle camerette le brutture del mondo.
I bambini sono gli unici protagonisti: il solo adulto presente è Veltroni, di cui si sente la persistente voce fuori campo sollecitare i giovanissimi su grandi interrogativi esistenziali e domande d’alleggerimento sui primi fidanzatini.
Il regista vuole far emergere la saggezza dell’infanzia: una domanda ricorrente infatti è “i bambini cosa sanno più dei grandi?”. Purtroppo molti quesiti nella loro ingombrante universalità rischiano la genericità – “cos’è l’anima?”, “come te lo immagini Dio?”, “ti piace la vita?” – e le risposte scadono spesso in un’inevitabile retorica, con l’aggravante che il metro usato da Veltroni per selezionare le repliche dei bambini è stato “la poeticità delle risposte”.
Il documentario è attraversato da un malinteso senso di poesia, secondo il quale frasi come “la cosa più bella della vita è sognare” o “rispetto ai grandi i bambini sanno fare pace” sarebbero piene d’ispirazione. Per Veltroni è poesia il montaggio di spezzoni cinematografici di bambini che corrono – da Comencini all’immancabile Truffaut –, posto a commento del bambino che sogna di vedere il mare. Come puntualmente avverrà nel finale, sottolineato da una colonna sonora dolciastra con tanto di violini da fiction televisiva – ulteriore tocco poetico.
Fortunatamente i bambini sono più forti della gabbia nella quale sono costretti e talvolta emerge l’autenticità dei loro sentimenti, come nel rapporto simbiotico tra due gemelle una delle quali down, o nella ragazzina che chiama al cellulare il padre morto perché l’aiuta a sentirlo ancora vicino. Ma Veltroni fa il possibile per anestetizzare, o meglio veltronizzare, i momenti più toccanti: per esempio il caso del bambino libico sbarcato a Lampedusa, il cui scabro racconto è seguito da una lenta panoramica in controluce dell’isola con sottofondo di musica sognante al pianoforte.
In verità I bambini sanno è solo apparentemente un racconto dell’infanzia. In realtà è un ritratto del suo artefice. Di Veltroni unico adulto che ascolta i bambini, capace di mettersi alla loro altezza e non giudicarli. E dell’universo di valori veltroniani, che trasformano questo documentario in un film di finzione che delinea un paese senza conflitti – i ragazzini parlano solo di pace e rispetto per fedi, etnie, identità sessuali – e all’insegna della speranza nel futuro, parola passepartout nel lessico del politico-regista. Sui titoli di coda passano vecchie polaroid degli autori fotografati da piccoli, Veltroni in testa. Sono loro, se ancora non fosse chiaro, i bambini che sanno.
È il momento dei bambini, oramai utilizzati per qualunque cosa, dai talent agli approfondimenti di politica, come se fossero i puri fuori dal mondo. Eppure, come scrive stefano, è facile “veltronizzare” perché è sempre l’intervistatore che plasma. La purezza in certi casi sarebbe possibile se il mezzo fosse sconosciuto, ma chiunque oggi ha tenuto tra le mani un telefonino. Paradossalmente gli anziani oggi, sarebbero puri davanti alla macchina da presa.