“In futuro sarà possibile riconoscere, studiare e capire il senso della lotta di resistenza italiana ed europea grazie ad una sola sequenza di Roma città aperta più che mediante la consultazione di decine di libri di storia”. Le parole dello storico del cinema italiano Gian Piero Brunetta spiegano bene perché per celebrare il settantesimo anniversario del 25 aprile la Rai abbia scelto di trasmettere il capolavoro di Rossellini, nell’edizione restaurata dalla Cineteca di Bologna: perché ha il sapore di un documento, una testimonianza in presa diretta dell’Italia del tempo di guerra più che una ricostruzione di finzione.
A sintetizzarla, la rivoluzione della poetica neorealista è tutta qui: nella capacità quasi istintiva di incamminarsi sul sentiero della realtà, radiografata nella sua veritiera nudità. Un grado zero della realtà – dopo anni nutriti dalle elusive finzioni del cinema dei telefoni bianchi – che svelava necessariamente un volto degradato, ferito e offeso dalle umiliazioni della guerra. Fu uno shock, cui però Rossellini offriva una via d’uscita: raccontando, qui e nel successivo Paisà, un paese in cui il popolo dimostrava di possedere forza morale, senso di solidarietà, capacità di reazione.
Roma città aperta è il ritratto corale di un mondo fotografato ad altezza d’uomo, come se la macchina da presa filmasse la gente per strada ripresa nel bel mezzo della sua casuale e dolorosa esistenza quotidiana. Uno sguardo cinematografico che si faceva documentario, trasformandosi nella memoria, con il trascorrere degli anni, semplicemente in documento.
Documento, soprattutto, di una ritrovata dignità: quella simboleggiata dal coraggioso partigiano Manfredi, dalla signora Pina della Magnani che si affloscia dopo una scarica di mitra, dal don Pietro di Fabrizi che muore con la voce dei bambini nelle orecchie e un lampo di speranza nello sguardo. Tre figure che si stagliano sullo sfondo della storia collettiva e posseggono la forza iconica di un cinema popolare – narrato talvolta con accenti melodrammatici e una commistione tra comico e tragico che parvero stonati alla critica del tempo (persino Bazin, che pure amava moltissimo Rossellini, parlò di “demone del melodramma”).
Il regista mirava a un cinema che non erigesse steccati: non tra le persone, di cui Roma città aperta non racconta le differenze ideologiche, ma la ritrovata unità nella lotta antifascista; e nemmeno tra le culture, mescolando senza preclusioni cultura alta e bassa, a partire dagli attori provenienti dall’avanspettacolo. Più per intuizione che per un preciso disegno, Rossellini aveva compreso che la rifondazione dell’identità del paese doveva passare per una strategia non esclusiva ma inclusiva, che tenesse conto di modi di pensare, culture e stili narrativi eterogenei.
Questo film, che ha fatto dire a Godard “Tutte le strade portano a Roma città aperta”, è sì un atto cinematografico rivoluzionario, nel linguaggio, modello produttivo (obbligatoriamente povero), sguardo realista, necessità dell’improvvisazione. Ma più di tutto resta, appunto, un’intuizione: di un uomo consapevole ma poco incline alle teorizzazioni, che non aveva l’urgenza di girare un capolavoro ma semplicemente, come disse, “non poteva non fare un film”.