I titoli di testa e di coda passano su un fondo completamente nero, come quello del balcone di piazza San Pietro che risucchiava il nuovo papa Melville e qualsiasi speranza di futuro in Habemus Papam. Eppure Mia madre, l’ultima opera di Nanni Moretti, non vuole essere un film “a lutto”, anche se è dichiaratamente “sul lutto”. La storia è semplicissima, riassumibile in un rigo: la regista Margherita (Margherita Buy, mai così brava) gira un film mentre la madre Ada (Giulia Lazzarini, straordinaria) sta morendo.
Naturalmente c’è dell’altro: il film nel film, su degli operai che si battono per salvare il proprio posto di lavoro. C’è Barry (John Turturro), il divo statunitense che interpreta lo spietato nuovo proprietario della fabbrica (ironicamente il cattivo, come in un vecchio film di sinistra, è amerikano). E c’è Giovanni (Moretti), equilibrato e amorevole fratello della regista, che lascia il lavoro per poter accudire la madre.
Ma tolte le due protagoniste, gli altri personaggi potrebbero essere dei fantasmi, delle emanazioni immaginarie della regista, la quale ha un’intensa attività onirica, che si mescola a tal punto con la realtà da confondersi con essa.
Vale per Giovanni, il sé pacificato precluso alla nevrotica Margherita (a sua volta doppio di Moretti, che ha flaubertianamente dichiarato “Margherita sono io”). E per Barry, incarnazione d’una parte infantile e capricciosa che Margherita non sa manifestare. Forse persino sua figlia Livia non esiste, ma è solo la proiezione di quell’intimità che nemmeno nei sogni in cui ritorna ragazza Margherita riesce ad avere con la madre (mentre a Livia la nonna Ada, professoressa per una vita, insegna amorevolmente il latino).
Così Mia madre assume quasi i toni di una seduta terapeutica, nella quale i personaggi che affollano le fantasie della protagonista sono altrettanti specchi del sé, organizzati in una struttura narrativa che segue la forma più congeniale al cinema di Moretti, quella rapsodica del diario. E proprio il diario personale del regista è stata la fonte principale cui attingere per riuscire a raccontare la perdita della madre.
Il film così oscilla continuamente tra opposte tensioni: da un lato la volontà analitica di ricomporre in unità l’identità scompaginata dal lutto, dall’altro la collezione diaristica di frammenti che non mirano all’organicità, ma a scongiurare quella perdita supplementare che è il vuoto di memoria (la malattia che affligge Barry, che non ricorda le battute e non riconosce i volti delle persone). Poi c’è la dialettica tra dimensione pubblica (la vicenda politica al centro del film di impegno civile di Margherita) e dimensione privata, intima, del dolore. E lo slittamento continuo tra la realtà (che Margherita asserisce di non riuscire più a comprendere) e la finzione del set cinematografico, che le fa quasi da controcanto.
La stessa duplicità la si riscontra nel tono del film, mesto nel raccontare l’avvicinamento alla morte, ma anche sorprendentemente pieno di speranza. Un sentimento ostinatamente rivendicato da Margherita, che a proposito del suo film dichiara: “Non è triste, è pieno di energia e di speranza”. E da Ada, che alla domanda della figlia, “Mamma, a che stai pensando”, risponde, sebbene prossima alla fine: “A domani”.
Mia madre è una grande ricapitolazione di tutto il cinema di Moretti: c’è l’intermittenza del racconto di Caro diario e Aprile; l’onirismo freudiano di Sogni d’oro; il cinema nel cinema de Il caimano; il dolore del lutto paventato ne La stanza del figlio; la perdita della memoria (e della politica) di Palombella rossa. Persino la morte della madre Moretti l’aveva già girata, ne La messa è finita. Eppure nulla ha il sapore del dejà vu. È come se, grazie alla forma più distesa e meno nevrotica di un film sconsolato ma non sconfitto, il regista fosse riuscito a filtrare, rinnovandolo, il suo universo poetico. Riemergendone, alla fine, più somigliante a Giovanni che a Margherita.