Sono poche le maschere comiche geniali degli ultimi decenni. Ma di queste sicuramente fra tutte svetta una che è simbolo di un’intuizione felice, quanto semplice. La descrizione di un personaggio apparentemente esagerato, ma che a ben vedere forse è semplicemente rimarcato pesantemente nei tratti caricaturali. Fantozzi in estrema sintesi è questo: la geniale interpretazione di un certo tipo di italiano medio, molto diffuso.
E questo è stato il primo segnale di un grande successo: l’aver fotografato più o meno alla perfezione una realtà evidente ma, fino ad allora, ancora poco focalizzata. Paolo Villaggio, ne sono convinto, non è celebrato quanto dovrebbe.
Fantozzi comparve nel 1975 al cinema, dopo essere stato protagonista di molti sketch televisivi: il successo fu pressoché immediato. La cosa singolare e azzardo eccezionale fu, a dire di molti, quel sorridere del personaggio per certi versi quasi in sordina: si sorrideva di un impiegato in sintesi succube, sfigato e dalla vita estremamente triste, “scimmiottandone” magari allo stesso tempo le sue prodezze in negativo. Non ci si accorgeva però, che a sorridere di Fantozzi erano tanti altrettanti Fantozzi inconsapevoli. Eh già: siamo tutti un po’ Fantozzi. Lo siamo stati in moltissimi, per lungo tempo; lo siamo ancora oggi, anche se con alcune caratteristiche leggermente cambiate. In peggio.
Sottovalutando il messaggio che trapelava fra le pieghe delle esilaranti gag del rag. Ugo Fantozzi, molti di noi si sono ritrovati a piangere, metaforicamente e non, di situazioni clamorosamente simili alle disavventure del mediocre impiegato.
Paolo Villaggio è stato di una lucidità mostruosa (per usare un aggettivo a lui molto caro) nel descrivere ed analizzare le contorsioni sociali ed economiche in atto nei preistorici anni 70. E lo ha fatto a modo suo, con un sarcasmo, un’ironia e, diciamolo pure senza remore, una crudeltà al di sopra dell’uomo comune.
È d’obbligo però sottolineare che, cinematograficamente parlando, ci riferiamo ai primi Fantozzi, quelli di Luciano Salce per intenderci. Non contano, in tali concetti, la scarsa qualità e le speculazioni fatte sul personaggio che ha, per certi versi, quasi svilito il talento con una serie quasi indefinibile ed interminabile di episodi cinematografici. Contano soprattutto i primi tre film e, più che altro, l’idea concettuale. Quella stessa idea che fu raccolta anche in un libro, dal clamoroso successo. Fa riflettere e lascia in un certo senso un po’ perplessi, sapere che l’omonima opera letteraria, divenne un best seller anche sul mercato sovietico degli anni 70: forse suona un po’ come se parte dei cittadini dell’URSS si fossero dati milioni di bottigliate sui coglioni, emulando il mitico Tafazzi. Ma forse il genio di Fantozzi è stato proprio questo: farci ridere delle nostre stesse menomazioni sociali, delle nostre frustrazioni. Proprio come un condannato che, rassegnato all’inevitabile, reagisce per assurdo ridendo di se stesso. In uno slancio di lucida follia.