La vittoria di Birdman agli Oscar 2015 ha definitivamente reso Alejandro González Iñárritu un grande autore contemporaneo. Il regista messicano si era distinto sin dall’esordio di Amores perros per la capacità di coniugare epica melodrammatica e stile cinematografico avanguardista. Merito da condividere con lo sceneggiatore Guillermo Arriaga, responsabile anche dei soggetti dei successivi 21 grammi e Babel, che costruisce storie in cui diverse vicende si fondono in una sequenza temporale a incastri, fatta di flashback e flashforward.
Babel è il vertice del modello, perché agli intarsi narrativi aggiunge un’ambiziosa ambientazione planetaria, in cui il fucile donato da un giapponese (Kōji Yakusho) a un pastore marocchino è usato dal figlio per ferire involontariamente una turista americana (Cate Blanchett, moglie di Brad Pitt), con conseguenze che si riverberano negli Stati Uniti sulla tata messicana dei figli della coppia. Iñárritu così approfondisce ed estende al globo intero il suo discorso sulla casualità incontrollabile della vita e sull’interdipendenza delle vicende umane.
La confezione è impeccabile: ogni episodio possiede una sua tonalità visiva, dalla scabra Africa del Nord al Messico esuberante, fino alle luci ingannevoli del Giappone in cui si svolge la storia di solitudine della figlia sordomuta di Yakusho. Nei calibrati andirivieni temporali i dettagli alla fine si ricollocano perfettamente, tenuti insieme dalla comune riflessione sulla cattiveria umana, di cui sono inesorabilmente i poveri e i deboli a pagare il prezzo più alto (l’epopea della domestica alle prese con l’ottusità della burocrazia; i sospettosi compagni di viaggio benestanti della coppia americana, aiutata solo da un marocchino altruista e disinteressato).
Però, come per i film precedenti, affiora qualche dubbio: perché la sapiente struttura a incastri sembra un tocco modernizzante e alla moda (è il modello narrativo più usato degli ultimi vent’anni, a partire da Pulp Fiction di Tarantino, canonizzato da Memento di Nolan e, in televisione, dalla serie Lost di J.J. Abrams), applicato a una materia che, contenutisticamente, è piuttosto tradizionale.
Prese singolarmente le storie raccontate da Babel (o quelle ancora più patetiche del precedente 21 grammi, tra cardiopatici e vedove tossicomani) sono insistentemente melodrammatiche. Iñárritu non risparmia nell’intreccio effetti ai limiti dell’inverosimiglianza, frutto di un destino malevolo che si accanisce sui protagonisti. E questo serve a comporre un ritratto ad alta temperatura emotiva che fa scattare l’immedesimazione sentimentale dello spettatore. Il quale aderisce facilmente a un racconto che, ritraendo un prevedibile mondo di ricchi egoisti e poveri travolti dal caso, fa leva sul senso di colpa di un pubblico occidentale complessato dalla propria appartenenza al primo mondo privilegiato.
Questo pubblico, però, ha aspirazioni culturali ed estetiche raffinate e di sicuro rifiuterebbe i toni lacrimevoli di un dramma smaccatamente popolare. Quindi Iñárritu rimescola le carte, imbastendo una cornice temporale postmodernista che fa acquistare al film una patina nobilitante. Una strategia “midcult”, avrebbe detto Dwight Macdonald, tipica dei prodotti appartenenti alla cultura di massa che mascherano le proprie origini impiegando strumentalmente stilemi d’avanguardia, per darsi una patente di alta cultura indispensabile per conquistare una platea dai gusti smaliziati e ottenere il plauso della critica.
è arrivato il momento di rivederlo.