Dopo Orgoglio e pregiudizio ed Espiazione, il regista Joe Wright e la sua musa Keira Knightley tornano insieme in Anna Karenina (2012), dal celebre romanzo di Tolstoj che racconta, nella Russia del tardo Ottocento, l’amore funesto per il conte Vrònskij (Aaron Taylor-Johnson) di una donna sposata a un altro uomo, l’ufficiale governativo Karenin (Jude Law).
Wright ha puntato sulla messa in scena: il film è in gran parte ricreato in un teatro nel quale, grazie agli impeccabili virtuosismi della regia, i personaggi si muovono fluidamente, passando senza stacchi dal mondo esterno allo spazio scenico, come fosse un unico ambiente. La realtà non è interamente cancellata, ma spesso trasportata sul palco che, suggestivamente, si trasforma in sala da ballo, pista per corse di cavalli, campo di fiori.
La vicenda di Anna, quindi, si svolge quasi costantemente alla ribalta, sottoposta agli sguardi voyeristici dell’aristocrazia di San Pietroburgo, un pubblico affamato di apparenze e impaziente di giudicare i comportamenti altrui. Il mondo è un palcoscenico dove ognuno deve recitare la sua parte, diceva Shakespeare: Wright lo prende alla lettera e racconta con intenzioni corrosive una società in cui la classe dominante si mette perennemente in scena, e dove qualunque deviazione alla norma va censurata.
L’allegoria della recita, quindi, vuole trasformare il film nell’analisi crudele di un mondo e delle sue feroci, ma formalmente impeccabili, regole tribali. Regole la cui forza inaggirabile risulta evidente nelle scene di massa coreografate come balletti, nei quali i movimenti ordinati e sincronizzati dei personaggi sono il corrispettivo fisico dell’ideologia sociale che impone pensieri e comportamenti cui nessuno può derogare, pena l’esclusione dal consesso civile. Quello che succede ad Anna, che smette di recitare la parte assegnatale e per amore trasgredisce la norma, con tragiche conseguenze.
La soluzione starebbe nel sottrarsi alla logica del palcoscenico: per questo la sceneggiatura del drammaturgo Tom Stoppard duplica le linee narrative e alla storia principale accosta in funzione di controcanto la vicenda di Levin (Domhnall Gleeson), proprietario terriero la cui sensibilità conquista il cuore di Kitty (Alicia Vikander). Levin riesce a riappropriarsi della propria vita attraverso scelte sofferte e personali, che si svolgono lontano dalla città e dall’aristocrazia: nessuna quinta teatrale ad angustiarlo, ma gli spazi aperti di una vera campagna, in mezzo a contadini che vivono, e non recitano, sentimenti reali.
Le ambizioni antropologiche di Wright, però, avrebbero avuto bisogno di un approccio più analitico. La messa in scena è inventiva e seducente, ma le inquadrature, la colonna sonora enfatica, le morbide luci che accarezzano i personaggi, persino le acconciature sensuali e avvolgenti della Knightley dànno al racconto un tono inconfondibilmente divistico e romantico. E la storia dell’amore impossibile riprende il sopravvento, tra palpiti, carezzevoli amplessi e tortuosi sensi di colpa.
Così il potenziale trattato su di una società fondata sull’apparenza si stempera in un balletto di passioni incarnate da interpreti il cui stile sfiora la maniera. Uno spettacolo di gran classe, dalla confezione barocca e innovativa, ma di sostanza melodrammatica, ai confini del kitsch sentimentale.