I costi di recesso dagli operatori telefonici dovevano essere i protagonisti indiscussi del DDL Concorrenza in discussione presso il Governo: in realtà, finiranno con l’esserlo ma non più in senso positivo ma al contrario, negativo.
Qualche giorno fa, la lieta novella: i costi di recesso erano in procinto di essere eliminati dal nuovo decreto. Nessun esborso in caso di cambio operatore telefonico fisso e mobile (Vodafone, 3 Italia, Wind e TIM e non solo) o anche in caso di chiusura di contratto da abbonamento a tv satellitare. Le anticipazioni di Repubblica.it erano state chiare, salvo dover registrare oggi un repentino cambio di rotta.
I costi di recesso continueranno ad esserci, almeno secondo il documento poi approvato venerdì 20 febbraio e a dire la verità, ancora da confermare con il consueto iter parlamentare. In particolare, questi potrebbero essere anche più salati che in passato. Ecco il nuovo comma incriminato:
“L’eventuale penale (per la disdetta, ndr) deve essere equa e proporzionata al valore del contratto e alla durata residua della promozione offerta”.
Quanto scritto sembrerebbe essere a tutela dei consumatore, ma vi sbagliate di grosso. Il decreto Bersani del 2007 , intanto, non parlava di “penale” ma solo di eventuali costi di uscita che il cliente avrebbe dovuto sostenere se corrispondente alla reale spesa affrontata dall’operatore per il passaggio tecnico/amministrativo. Ora l’ultima norma non mette limiti alla soglia da pagare, se non specificando che questa dovrà essere in proporzione al tempo residuo dell’offerta a cui si è aderito.
Sulla questione, è già intervenuta l’associazione Altroconsumo, mettendo in rilievo come prima che il decreto sulla Concorrenza sarà effettivo, darà battaglia al Governo e in Parlamento per eliminare il comma incriminato. In effetti, quello che sembrava essere fino a qualche giorno fa un passo in avanti per la tutela degli utenti, si è trasformato in un incredibile passo indietro ad una situazione pre-2007. E come sempre, sono i consumatori a non guadagnarci.