In una recensione di Forrest Gump, Piergiorgio Bellocchio scrisse che “il vero colpo di fortuna di Gump, il miracolo, è di aver incontrato chi l’ha trattato non come un diverso, ma come una persona”. Forrest era un uomo eccezionalmente dotato nel fisico e con scarse capacità intellettive, salvato dall’amore e dalla solidarietà concreta degli affetti.
La teoria del tutto, il biopic dell’astrofisico Stephen Hawking (Eddie Redmayne), racconta una vicenda simile, seppur ribaltata: un uomo eccezionalmente intelligente cui viene diagnosticato a 21 anni un morbo neurodegenerativo, destinato a paralizzarlo completamente. La ragione per cui la malattia non lo ha piegato – né ucciso, come previsto, nel giro di due anni – è dovuta, come per Gump, agli affetti che lo hanno assistito e sorretto.
Il film non è la biografia intellettuale dello scienziato – le cui ardite tesi sono risolte attraverso volenterose metafore, come una tazzina di caffè che sembra una galassia, citazione del Godard di Due o tre cose che so di lei –, ma un ritratto di coppia, nel quale il ruolo di Jane (Felicity Jones), la compagna della vita, è assolutamente paritetico. Come essenziale è il mondo che ruota intorno a Stephen, dall’amorevole famiglia d’origine agli accademici di Cambridge, che lo accettano e aiutano senza carità pelosa, col rispetto che si deve a un pari.
Il regista James Marsh sposa questa prospettiva e, come il Philippe Petit di Man on Wire, il documentario con cui ha vinto l’Oscar, si tiene in bilico su di un filo sottile. Non rinuncia alla commozione del dramma, segnato dalla costante perdita delle facoltà motorie e di parola da parte di Stephen, ma senza mai assumere toni ricattatori e sensazionalistici. In accordo, si direbbe, con il carattere del personaggio, un miscuglio di forza di volontà, intelligenza e umorismo, poco incline all’autoindulgenza vittimista.
Pur nei limiti di una confezione tradizionale, il film evita l’agiografia e racconta la vita della coppia senza omissioni, tratteggiando persino, per accenni sobri ma non eufemistici, la sessualità degli Hawking – che hanno avuto tre figli –, elemento che contribuisce non poco al senso di realismo della pellicola. Con il medesimo riserbo viene narrato anche il modificarsi della relazione, l’innamoramento di Jane per un altro uomo e di Stephen per un’altra donna. E di come il loro rapporto giunga alla separazione, senza però trasformarsi in una completa rottura, ma salvaguardando il nucleo della loro intensa intimità.
Perché il film – tratto, va ricordato, dal memoir di Jane Hawking – vuole essere questo, una storia intima sulla forza imprescindibile dell’amore. Da qui l’uso indovinato di sequenze trattate come filmini in super 8, documenti privati che restituiscono l’atmosfera confidenziale e affettuosamente casuale della vita di tutti i giorni di una famiglia, diciamo così, qualunque.
Chiaramente l’equilibrio de La teoria del tutto deve molto all’encomiabile interpretazione di Eddie Redmayne: quasi filologico nel restituire la progressione della malattia, è altrettanto concentrato sul profilo emotivo di Stephen, facendone emergere il carattere brillante e sarcastico, fedele al vecchio adagio secondo cui “finché c’è vita c’è speranza”.