Mommy: madre e figlio chiusi in gabbia, nel melodramma da camera di Dolan

Dopo il Premio della Giuria al festival di Cannes arriva al cinema l’attesissimo film dell’enfant prodige del cinema canadese. Un’opera che va al cuore delle emozioni, con l’ambizione di mostrare gli attori come se non recitassero.

Mommy dopo Cannes al cinema melodramma di Dolan

INTERAZIONI: 73

Xavier Dolan è l’enfant prodige del cinema internazionale. Francofono canadese, 25 anni e già cinque film: l’ultimo, Mommy, ha avuto il Premio della Giuria al festival di Cannes, nobilitato dall’ex aequo con lo sperimentalissimo Adieu au langage di Godard.

Sperimentazioni se le concede anche Dolan: qui l’uso dell’inedito formato 1:1, che trasforma lo schermo in un quadrato nel quale i personaggi vengono assediati dalla macchina da presa. Dolan racconta, ricollegandosi tematicamente all’esordio di J’ai tué ma mère del 2009 (“Ho ucciso mia madre”, assassinio simbolico), il difficile rapporto tra Diane (Anne Dorval) e il figlio adolescente Steve (Antoine-Olivier Pilon).

Il padre è morto pochi anni prima e il ragazzo soffre di deficit d’attenzione e sbalzi d’umore che sconfinano nell’aggressività. Steve alterna tenerezze a violenze, in una totale dipendenza affettiva, quasi incestuosa, dalla madre. Che resiste, lo ama incondizionatamente, ma è frustrata per la vita in balia del figlio.

A modificare lo stato di cose giunge la vicina Kyla (Suzanne Clément), insegnante balbuziente. Dopo un burrascoso inizio il ragazzo l’apprezza, scopre attraverso di lei l’amore per lo studio e manifesta sentimenti meno tortuosi. Per qualche minuto lo schermo diventa panoramico, come se la vita rifluisse e tornasse la serenità. Ma è un effetto momentaneo: le vite s’ingarbugliano di nuovo, i sentimenti del triangolo affettivo-anaffettivo pure e lo schermo torna all’asfittico quadrato visivo ed emotivo.

Mommy è un film non privo di qualità: prima di tutto nel suo indovinato non offrire ragioni chiare – e banalizzanti – al dolore dei protagonisti. Non sappiamo nulla del trauma che ha causato la balbuzie di Kyla e anche i motivi della morbosità della relazione tra Steve e Diane restano indeterminati. Anche se, ovviamente, la sofferenza del ragazzo è legata alla morte del padre, del quale ascolta continuamente, e sono per lui gli sprazzi di felicità più trasparente, una sua compilation musicale.

Dolan però cerca corpi e non spiegazioni. Il formato dello schermo è la gabbia dentro la quale rinchiude volutamente i protagonisti, per scrutarli nell’intimità. Indugia sugli attori per sorprenderne una verità espressiva che vada oltre i personaggi. Il suo ambizioso obiettivo è travalicare il confine della bella interpretazione, per far emergere l’immediatezza fisica dell’attore, prima e al di fuori delle regole. Perciò, come sempre nel melodramma – e Mommy è un melò contemporaneo su un triangolo parafamiliare denso di tensioni erotiche –, il regista alla fine trova corpi reali sotto la superficie dei corpi d’attori, ai quali toglie la sovrastruttura recitativa, alla ricerca di una sincerità più smagliante.

Certo, non mancano ingenuità: il formato tra quadrato e panoramico è una scelta didascalica che rischia di dire troppo e troppo semplicemente. E il ritratto del ragazzo fragile e maledetto ha un che di programmatico, confermato dal finale prevedibile. Ma la direzione degli attori e l’onestà della messa in scena, tra infrazioni, improvvisazioni e accensioni liriche, mettono in luce uno stile che, se più lucidamente definito, potrebbe dare in futuro frutti intriganti. Ed è già in cantiere il primo film americano con star come Susan Sarandon e Kathy Bates.