Qual è la ragione dell’inatteso successo di The Artist, il film francese muto (nel 2011!) di Michel Hazanavicius, che ha sbancato al botteghino e conquistato cinque premi Oscar (tra cui miglior film, regia e protagonista maschile)? L’eccentricità del progetto, certamente, che incuriosisce e fa simpatia. La scommessa (vinta) del regista di fare un vero film muto, persino nel formato (l’1:1.33 delle vecchie pellicole).
Hazanavicius però non si rinchiude nella calligrafia: rispetta le caratteristiche principali di quel cinema – didascalie, uso delle luci, immagini accelerate –, ma mostra grande consapevolezza degli strumenti cinematografici, con cui si diverte a giocare, come nella sequenza dell’incubo – stile noir anni Quaranta – in cui il protagonista sente i rumori degli oggetti ma non la propria voce.
Poi c’è il fascino della storia, classica vicenda di caduta e redenzione. Jean Dujardin è il divo del muto George Valentin (come Rodolfo), quintessenza della star romantica e avventurosa, mix tra l’atletismo di Douglas Fairbanks e la sfrontatezza di Maurice Chevalier. Il passaggio al sonoro gli tronca la carriera: tenta il suicidio, ma ad aiutarlo c’è Peppy Miller (Bérénice Bejo), giovane diva che Valentin ha aiutato prima che divenisse famosa (il riferimento è John Gilbert, star distrutta dalla fine del muto che Greta Garbo cercò invano di sostenere).
La storia è quella vista tante volte ad Hollywood, da È nata una stella a Cantando sotto la pioggia: e The Artist gioca e rimanda in modo trasparente ai suoi progenitori, esplicitamente citati (da Orson Welles a Fred Astaire). Resta da decidere il significato di questa bizzarra operazione: disinvolto film postmoderno ironico e citazionista o Frankenstein di celluloide che cerca di riportare in vita un armamentario consegnato alla storia del cinema e non più riattualizzabile?
Tutte e due le cose: è chiaro che il cinema muto è morto e sepolto e infatti, nonostante l’enorme successo, The Artist è destinato a rimanere un unicum. È altrettanto evidente che il film incontra un gusto per il vintage, oggi fortissimo: una vera mania nostalgica per il passato che spinge a ricrearlo o con veri materiali d’epoca – Magic in the Moonlight di Woody Allen usa vestiti degli anni Venti – o attraverso una copia filologica, come The Artist.
Il film è anche un peana all’industria hollywoodiana: pur mettendo in luce un momento di passaggio drammatico, esalta la capacità imprenditoriale del sistema, sempre in grado di rinnovarsi e creare nuovi sogni. Lo dimostra l’interpretazione di Dujardin, pieno di vita come un novello Gene Kelly. L’energia che mette nella sequenza del tip tap è pura forza, voglia di fare e reinventarsi: le qualità intrinseche della macchina hollywoodiana e dello spirito americano, puntualmente riconosciute e premiate dall’Academy.
C’è un ultimo segreto motivo del successo di The Artist: ed è il pubblico che si vede assistere, dentro il film, alle pellicole del muto. Spettatori completamente avvinti dalle storie che passano sul grande schermo, alle quali reagiscono con genuina e spontanea semplicità. È quell’ingenuità che crede senza riserve al cinema a scatenare in noi spettatori contemporanei la nostalgia, e l’invidia, più sentita. Vorremmo essere felici come loro.