Andiamo a quel paese è primo al box office, davanti persino a Interstellar. È questo il risultato del nuovo film scritto, diretto e recitato dal duo comico siciliano Ficarra e Picone, che si confermano beniamini del piccolo e del grande schermo. Alla loro quinta pellicola da protagonisti, interpretano Salvo (Ficarra) e Valentino (Picone) che, rimasti senza lavoro, si trasferiscono da Palermo alla cittadina dell’entroterra di cui è originario Valentino, Monteforte, dove possono vivere con poco. Quasi subito si rendono conto del vero tesoro custodito dal paesello, ossia il gran numero di anziani parenti dotati di pensioni, grazie alle quali poter vivere felicemente da parassiti.
La vicenda si complica quando i vecchi familiari accolti in casa muoiono uno dopo l’altro. Tutti tranne una coriacea zia Lucia, settantenne, intorno alla quale i due amici escogitano un piano: il matrimonio con Valentino, per disporre liberamente del suo patrimonio. L’idea crea da un lato lo sconcerto nei concittadini, dall’altro ispira tutti i giovani sfaccendati di Monteforte, che prendono a sedurre le anziane del paese mirando alle loro pensioni, con palese soddisfazione delle stesse (ed è la trovata tutto sommato più divertente del film).
Ficarra e Picone, come in tante altre opere italiane odierne, inglobano il tema della crisi economica, trasformandola nello spunto di partenza della pellicola. Ma si tratta giusto di un pretesto debolmente legato all’attualità, sul quale poi innervare una stracca commediola dal ritmo letargico e dalla scontata enumerazione dei sempiterni stereotipi sul Sud, dove tutti perdono tempo al bar o dal barbiere, nessuno lavora e la ricerca di un impiego è legata alla raccomandazione del politico di turno.
Salvo e Valentino non sono i due soli parassiti del film: lo sono gli stessi Ficarra e Picone, che fanno man bassa di gag e battute della gloriosa commedia italiana, il sommo Totò per primo, vergognosamente saccheggiato in più occasioni. Non si parli di omaggi o citazioni, si tratta semplicemente di escamotage per sopperire alla mancanza di buone trovate. A un certo punto Salvo, rinvenuto dopo un colpo ricevuto in testa, pronuncia ancora in stato confusionale le parole “Soldatino, King e D’Artagnan”: cioè i nomi dei tre cavalli che compongono la tris giocata da Proietti e Montesano in Febbre da cavallo, il cult di Steno del 1976. Una citazione gratuita, di cui sfugge completamente il senso. E non è la sola.
A questo si aggiunge la ripetitività delle gag: quella dei genitori di Valentino, che Salvo si ostina a ritenere morti, e invece vivissimi, ricorre non meno di dieci volte. È un peccato, perché qualche opportunità grottesca la sceneggiatura la possiede: le serenate che i giovani fanno alle vecchie del paese ingolositi dal denaro, l’idea potenzialmente disturbante del matrimonio tra Valentino e zia Lucia, l’unico personaggio non privo di dignità del film. Ma ogni spunto satirico annega nel conformismo: tranquilli che alla fine tutto è ricondotto all’ordine, anche le pulsioni erotiche di Valentino, a scanso di equivoci incanalate verso la bella di turno. Onore al botteghino, per carità, ma fermiamoci qui.
Caro signor Giovanni
grazie per l’attenta lettura, per quanto profondamente dissenziente. Rispetto alla questione delle citazioni, capisco che Ficarra e Picone volessero rendere omaggio a Totò e alla gloriosa commedia italiana. Ma la citazione funziona quando viene fusa coerentemente nel racconto e non pigramente trapiantata, altrimenti invece di dare linfa rischia di creare fenomeni di rigetto. È il caso della citazione di “Febbre da cavallo”, che può risultare piacevole agli appassionati di quel divertentissimo film, ma che in “Andiamo a quel paese” è utilizzata in modo incongruo, senza alcuna necessità narrativa. Su Totò, poi, una citazione sarebbe bastata a segnalare l’omaggio: ma nel film ce ne sono almeno quattro e credo sia legittimo trovarlo eccessivo o, quanto meno, ripetitivo.
Non ho preconcetti particolari nei confronti di Ficarra e Picone: come vede riconosco al film la bontà di alcune gag e anche significative potenzialità di sceneggiatura che sarebbe stato possibile sviluppare in maniera più coraggiosa. Per quanto riguarda il finale credo lei si riferisca, lo dirò in questi termini per evitare spoiler, alla storia personale del prete interpretato da Mariano Rigillo: ma l’argomento, certamente importante, mi sembra venga affrontato con timidezza e una certa sbrigatività.
La commedia all’italiana, dall’impietosa coppia Sordi-Sonego alle commedie al vetriolo di Germi e Monicelli, si distingueva per una capacità feroce di scandaglio satirico della realtà del paese. I nuovi comici non mi sembrano davvero all’altezza di quella tradizione, e chiaramente non mi riferisco solo a Ficarra e Picone. L’unico che possegga una fantasia sbrigliata e sanamente aggressiva è Checco Zalone che, non a caso, è stato clamorosamente premiato dal pubblico. Il quale, evidentemente, chiede ai comici meno melassa buonista, più coraggio e la voglia di leggere senza sconti la contemporaneità italiana. Naturalmente spero non vorrà smettere di leggere “Alta fedeltà” e mi auguro di poter rileggere in futuro i suoi commenti. La ringrazio
Caro signor Fedele,
sono veramente imbarazzato al suo posto per quello che ha detto, ma sopratutto per come lo ha detto. Confondere omaggi, che Ficarra e Picone fanno all’interno del film, per saccheggi non le rende onore. Non riconoscere un finale straordinario, e per niente consolatorio come lei sostiene, mi lascia senza parole. Mi chiedo che film lei abbia visto. Posso capire che a lei non piacciano i due, ma da qui a non essere lucidi ce ne passa. Non la leggerò più perché troppo violento e poco,lucido. Ed io volevo leggere solo punti di vista sui film e non miopi osservazioni.
Grazie
Giovanni