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Home Cinema

Boyhood, il film lungo dodici anni di Richard Linklater

Un’esperienza cinematografica innovativa, girata tra il 2002 e il 2013 per raccontare il viaggio di Mason dall'infanzia all'età adulta. Un film che ha per protagonista il tempo e quello che significa per ognuno di noi.

di Stefano Fedele
28/10/2014
INTERAZIONI: 67

INTERAZIONI: 67

Boyhood il film lungo dodici anni di Richard Linklater

Boyhood di Richard Linklater segue la crescita di un ragazzo dall’infanzia alla maggiore età: per farlo riprende realmente questo processo, riunendo ciclicamente gli stessi attori dal 2002 al 2013 e girando ogni volta una parte della storia di Mason (Ellar Coltrane) dai 6 ai 18 anni.

Boyhood è un racconto di finzione, la storia infatti è inventata, ma è vero lo scorrere del tempo, la trasformazione fisica e i segni del passare degli anni su corpi e volti del protagonista, la sorella Samantha (Lorelei Linklater, figlia del regista), i genitori separati Olivia (Patricia Arquette) e Mason senior (Ethan Hawke).

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Linklater è affascinato da sempre dal tema del tempo, intorno a cui ruotava il trittico Before sunrise – Before sunset – Before midnight, che ritraeva un rapporto di coppia (Julie Delpy e lo stesso Hawke) in tre distinti momenti, a nove anni di distanza l’uno dall’altro. La trilogia già insisteva sul tempo e i cambiamenti fisici ed emotivi dei protagonisti, prima ventenni che si affacciano alla vita, poi giovani adulti e infine persone mature. Ma Boyhood conduce il gioco all’estremo e lo rende vertiginoso.

Il film ha qualche progenitore (il documentario 7 Up di Michael Apted, vite vere ritratte ogni sette anni dal 1964 al 2012) e rimanda alla famosa frase di Jean Cocteau secondo cui “il cinema è la morte al lavoro sugli attori”. Il vero racconto di un film, cioè, non è la storia di finzione che scorre davanti agli occhi dello spettatore, ma la vicenda reale del corpo dell’interprete, il suo avvicinarsi inesorabile alla morte. Un’affermazione a effetto, che con Boyhood sembra più vera.

Fa pensare proprio a questo, infatti, la sequenza in cui Olivia, di fronte al figlio ormai diciottenne e prossimo a trasferirsi al college, riflette con sgomento sul tempo passato così rapidamente. Il film offre due punti di vista compresenti: il volgere degli anni può sembrare una conquista emozionante attraverso gli occhi di Mason, che passa dall’infanzia all’età adulta e vede allargarsi le sue possibilità e intensificarsi le sue energie. Ma per i genitori che entrano nell’età matura la stessa porzione di tempo ha un sapore completamente diverso. E il fatto che Boyhood contragga dodici anni – reali, non solo cinematografici – in meno di tre ore, dà a questa sensazione un’evidenza che lascia profondamente turbato lo spettatore, che prova la stessa malinconia di Olivia.

Alcuni critici hanno elogiato la storia: poiché è una vicenda comune, senza effettistici colpi di scena, hanno detto che il film ritrae “la vera vita”, con le sue gioie e miserie quotidiane. Ma non c’è nessun merito particolare in questo, il cinema realista si sforza di farlo da sempre. Boyhood, questo il suo vero fascino, è una scultura del tempo, riporta il cinema al suo rapporto fondamentale con la durata, la sua capacità di documentarla e farcela percepire. Ma è anche il suo limite: il film sembra un esperimento “filosofico” che, per indagare il significato del tempo, dimentica per strada i personaggi, lasciati a vivere vicende umane troppo umane, così ordinarie da risultare poco coinvolgenti.

Tags: cinema americaethan hawkeRichard Linklater

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