Čechov, Ibsen, Strindberg e Bergman: si citano i classici di riferimento e sembra di aver detto tutto su Il regno d’inverno – Winter sleep, con cui il regista turco Nuri Bilge Ceylan ha vinto la Palma d’oro all’ultimo festival di Cannes.
Il film è un romanzo da camera di impianto teatrale, con dialoghi fitti e cesellati – contrariamente al suo cinema di solito rarefatto ed estenuante –, che ruota intorno a tre personaggi: Aydin (Haluk Bilginer, popolare attore turco), maturo e facoltoso ex teatrante ritiratosi in Cappadocia, dove gestisce un albergo scavato nella roccia; la giovane moglie Nihal, impegnata in attività di beneficenza per sedare le insoddisfazioni latenti; la sorella Necla, che vive con loro da quando il suo matrimonio è naufragato. E poi c’è la vicenda di Ismail, ex galeotto e affittuario moroso di Aydin, a cui il giovanissimo figlio rompe con una sassata il finestrino dell’automobile.
I personaggi sono annegati in uno scenario perennemente spazzato dalla neve, dominato da una luce grigiastra e slavata che ne accoglie e riverbera emozioni e sentimenti. Non sorprende che, in un ambiente naturale siffatto, i riferimenti stilistici siano i citati maestri della letteratura e del cinema nordeuropeo, primo fra tutti Čechov. Al drammaturgo russo rimandano i personaggi femminili piegati dal fallimento esistenziale, che guardano alla terra promessa Istanbul come le Tre sorelle sognavano la capitale (“A Mosca! A Mosca!”). E Ingmar Bergman è dietro l’angolo nei dialoghi in cui si parla di male, perdono e coscienza.
Se fosse tutto qui ci troveremmo, come ha sostenuto qualche critico, dalle parti di un cinema nobile ma passatista, che racconta nevrosi da romanzo ottocentesco. Ceylan invece fa di più. La vicenda collaterale dell’indigente Ismail tratteggia un vero e proprio conflitto di classe che dà uno spessore contradditorio e realistico all’universo turco rappresentato. E soprattutto mette alla prova le preoccupazioni filosofiche che i benestanti ostentano nelle loro conversazioni, misurandole su scelte concrete, che hanno a che vedere con l’atteggiamento verso gli uomini e il denaro (l’idealismo a parole di Aydin stride col fatto che accetti di farsi baciare la mano dal ragazzino venuto a chiedere perdono).
Alla gabbia del dramma familiare tradizionale il regista poi sfugge distendendo il film su una durata esorbitante – oltre tre ore senza un momento di noia – che trasforma il confronto tra i tre protagonisti in un insostenibile gioco al massacro, con dialoghi prima allusivi e via via più espliciti, a tratti quasi sadici.
Nella lunga sequenza in cui marito e moglie parlano apertamente, i loro volti sono illuminati solo da una candela, come se fossimo davvero ripiombati nell’Ottocento. Ceylan sa che il suo cinema “esistenziale” è inattuale. Non lo nasconde, anzi lo prende alla lettera, ecco la sua forza. Punta sull’intensità e la ripetizione delle situazioni, estremizzandole: così evita le pastoie del classicismo e trova una sua misura, che si ispira ai maestri senza imitarli. E regala allo spettatore un’esperienza visiva inusuale, in cui l’itinerario che conduce alla rinascita personale ha un sapore assolutamente credibile.
Sì certo Cechov e Bergman ma come dimenticare Pamuk di Neve e non solo. Un grande film sul potere. Su varie forme di potere, anche quello intellettuale delle parole.
Sì certo Cechov e Bergman ma come dimenticare Paul di Neve e non solo. Un grande film sul potere. Su varie forme di potere, anche quello intellettuale delle parole.