In Pasolini, film sull’ultimo giorno di vita del poeta, Abel Ferrara mette in scena sequenze del progetto cinematografico cui questi stava lavorando prima di morire, Porno-Teo-Kolossal. È la storia del re magio Epifanio e del suo servo che seguono la stella cometa alla ricerca del Messia. Pasolini voleva come interpreti Eduardo De Filippo e Ninetto Davoli: il regista americano prende il vero Davoli per fare Eduardo e Riccardo Scamarcio come giovane Ninetto.
A un certo punto, insomma, ci si vede doppio: due Ninetti, uno vero e uno finto, che rimandano idealmente a due Pasolini, quello reale – di cui il vecchio Davoli è ormai un testimone in vita, tanto forte è il legame che li univa – e quello della finzione cinematografica di Ferrara.
Il problema è che la realtà si mangia la finzione. Nel film accade la stessa cosa vista alla conferenza stampa al festival di Venezia, dove regista e interprete – Willem Dafoe – fecero quasi le comparse mentre Ninetto Davoli sproloquiava tutto il tempo. Come a dire: il vero Pasolini – il suo mito – è troppo forte e volente o nolente si prende tutta la scena.
Sembrerà un’affermazione paradossale, ma in questa pellicola c’è troppo Pasolini: lui direttamente, cioè e non la visione di Abel Ferrara. Il film è tutto in prima persona: ci sono le lettere di Pasolini, i film (spezzoni di Salò), le interviste (una lunghissima sequenza riproduce quasi integralmente quella rilasciata a Furio Colombo poche ore prima di morire), i romanzi (ampi brani di Petrolio). Persino la colonna sonora è composta solo di musiche usate da Pasolini nei suoi film. La preoccupazione filologica sfocia nel didascalismo e diventa una gabbia: il film a tratti sembra un rispettoso e legnoso ritratto documentario e non un viaggio personale attraverso un’identità contradditoria e incendiaria. Un lavoro da ventriloquo, non da biografo.
Certo, Ferrara fa alcune scelte: primo, tenersi lontano dallo scontato ritratto del poeta scandaloso. L’ultimo Pasolini corsaro e luterano offriva un vasto repertorio di dichiarazioni provocatorie, dal processo alla Dc fino alle “modeste proposte” swiftiane di abolire scuola e televisione. Ma di queste nel film non c’è traccia (a parte la dichiarazione pasoliniana sul diritto di scandalizzare): e bene hanno fatto regista e sceneggiatore (Maurizio Braucci) a evitare l’antologia scolastica del “cattivo maestro”. Anche la morte del poeta è raccontata senza dietrologie, come un fatto brutale casuale, in linea con il senso di minaccia avvertito da Pasolini (“siamo tutti in pericolo” è il profetico titolo che propose a Colombo per l’intervista).
L’apporto di Ferrara però si limita a questo – più le discutibili scene del possibile Porno-Teo-Kolossal. Forse era inevitabile. Troppo ingombrante il personaggio Pasolini per riuscire a rileggerlo: un artista narcisista che usava le sue opere come delle trasfigurazioni di se stesso (“dispositivi a varia matrice autobiografica”, scrive il suo esegeta Walter Siti). E questa irrefrenabile attitudine ha intimidito persino un autore solitamente fiammeggiante come Ferrara. L’allievo, compìto, si è messo in un angolo e ha lasciato il maestro al centro della scena a parlare senza filtri di sorta.