Nella sezione Orizzonti è stato proiettato ieri Io sto con la sposa di Antonio Augugliaro, Gabriele Del Grande e Khaled Soliman Al Nassiry, documentario interamente finanziato in crowdfunding, con quasi centomila euro raccolti. Un lavoro che ha dietro di sé un appassionante intreccio tra realtà e finzione.
Il regista Augugliaro, il poeta palestinese residente a Milano Soliman Al Nassiry e il giornalista Del Grande sono attivisti che alla stazione meneghina hanno incontrato dei migranti provenienti da Lampedusa in fuga dalla guerra in Siria, intenzionati a raggiungere la Svezia, ma sprovvisti di documenti. E allora i tre, in tempo reale, scrivono soggetto e sceneggiatura e girano un film: che racconta la storia di una coppia di neosposi, il siriano Abdallah e la palestinese Tasnim (l’unica chiamata a “recitare” la parte), in viaggio con il loro corteo nuziale – il gruppo di profughi – per festeggiare il matrimonio. Chi fermerebbe un festoso gruppo di amici unito per un’occasione come questa, pensano i registi-attivisti?
Un atto di disobbedienza civile per aiutare dei fuggitivi, attuato nei modi di una finzione cinematografica che si ribella alla realtà. Che ricorda Argo, il film di Ben Affleck che racconta la storia vera di un agente della Cia che, per salvare sei funzionari sfuggiti all’assalto dei militanti islamici all’ambasciata statunitense a Teheran, fa recitare loro la parte di una troupe canadese in Iran per girare un film di fantascienza. Sebbene tratto da una vicenda reale, Argo era una ricostruzione. In Io sto con la sposa il cortocircuito invece è vertiginoso: è la registrazione in presa diretta di una finzione, un matrimonio simulato, il cui obiettivo, la fuga in Svezia, è invece assolutamente reale. Che cos’è allora? Un documentario, un docufilm, un mockumentary, cioè un “falso documentario”? Probabilmente tutto questo insieme.
I quattro giorni del viaggio si snodano tra divertimento e commozione: momenti di festa al ritmo di musica araba, balcanica e soprattutto il rap di Manar, giovane musicista palestinese tra i migranti, che è la vera colonna sonora del docufilm. E momenti più toccanti, dove la confessione del dramma prende il sopravvento: Soliman Al Nassiry che riceve la cittadinanza italiana e si commuove, lui palestinese che per la prima volta sente di appartenere a qualcosa. E il racconto dello “sposo” del viaggio verso Lampedusa, con le storie dei compagni morti, di cui incide il nome sul muro di una casa diroccata al confine tra Italia e Francia, aggiungendo le sue – con forte valenza simbolica – alle scritte degli italiani che decenni prima usavano lo stesso percorso per emigrare illegalmente oltralpe.
Una storia civile appassionante per la quale scatta immediatamente l’adesione, anche per come riesce a opporre alla pesantezza del reale la forza creatrice della fantasia. Che è anche, forse oltre le intenzioni degli autori, una riflessione sulla labilità del confine tra fiction e documentario. Nuovi mezzi produttivi come il crowdfunding e la grande qualità delle maneggevoli telecamere digitali consentono libertà ed esperimenti prima inimmaginabili. E rimettono in discussione la natura dei generi cinematografici.