Sono recentemente usciti l’e-book Wes Anderson. Moonrise cinema, curato da Pietro Masciullo e Wes Anderson. Genitori, figli e altri animali di Ilaria Feole, con la prefazione del grande regista Peter Bogdanovich. Due ottimi ritratti, che ripercorrono la carriera dell’autore texano fino a Grand Budapest Hotel e analizzano il suo cinema, dalle fonti letterarie al rapporto con la moda. Non mancano le curiosità: quanti sapevano che il bisnonno di Anderson è Edgar Rice Burroughs, il creatore di Tarzan?
Il suo cinema è un piacere per gli occhi, con scenografie piene di dettagli che obbligano a più visioni per individuarli tutti; e uno stimolo per l’intelligenza dello spettatore, naturalmente spinto a fare collegamenti e azzardare interpretazioni. Un corpus di film sin troppo omogeneo, dicono i detrattori, che non gli perdonano la ripetitività di temi e stile.
Ma in Anderson il ricorrere di storie e situazioni non si trasforma mai in un puro gioco cinefilo, e dietro la confezione brillante fanno sempre capolino dei traumi che aleggiano sui protagonisti come un passato che li condiziona. L’ombra della morte, in primo luogo: in Rushmore Jason Schwartzman è orfano di madre e Olivia Williams, la donna di cui s’innamora, è vedova; i tre fratelli de Il treno per il Darjeeling fanno un viaggio in India per esorcizzare la perdita del padre; Bill Murray, ne Le avventure acquatiche di Steve Zissou, vuole vendicarsi dello squalo che gli ha ucciso l’amico.
Al centro della sua poetica è sempre una famiglia disfunzionale, causa della fragilità dei protagonisti, figli di padri guasconi ed egoisti come il Gene Hackman de I Tenenbaum, o abulici, come Bill Murray in Moonrise kingdom. E allora i figli per non affrontare le sfide di una vita alla quale si sentono inadatti cercano rifugi: il giovane genio di Rushmore resta morbosamente attaccato alla sua scuola, i due fratellastri innamorati de I Tenenbaum, una volta adulti, continuano a incontrarsi come da bambini sotto la tenda della stanza dei giochi.
L’immaturità è perenne e l’età fisica e mentale non coincidono mai. I personaggi de I Tenenbaum, il suo capolavoro, vestono sempre allo stesso modo, nonostante lo scorrere degli anni: da piccoli sembrano bambini travestiti da adulti, da adulti fanno la figura di bambinoni cresciuti male. Il passato pesa ineluttabile, ma il tempo sembra non passare mai davvero. Tutto richiama un universo bloccato: le scenografie, così ricche da assediare e togliere spazio ai protagonisti, e le inquadrature, quasi sempre perfettamente centrate e simmetriche. Questa è una delle ragioni della sottile inquietudine dei suoi film: un senso di soffocamento da eccesso di controllo e l’impressione che tutto resti immobile e congelato, come i personaggi che non crescono mai.
Eppure c’è una soluzione, che Anderson ci consegna nel bellissimo finale de Il treno per il Darjeeling. I fratelli durante il lungo viaggio hanno faticosamente trasportato un ingombrante set di valigie appartenute al padre scomparso: quando vedono il treno partire, capiscono che l’unico modo per prenderlo è abbandonare la pesante zavorra del bagaglio, e del passato. Per correre, finalmente viaggiatori leggeri, verso la loro meta.