Quando si entra in una libreria – a meno che non si abbia un’idea precisa di quel che si vuole comprare – molto spesso ci si lascia attrarre dall’immagine di copertina, dalle note iniziali, magari si legge l’incipit, ma il più delle volte è il titolo che ci porta all’acquisto. Ecco “Il bordo vertiginoso delle cose”, il titolo scelto da Carofiglio per questo suo ultimo romanzo (ma tratto da un componimento di Robert Browning, poeta e drammaturgo britannico del XIX secolo), promette bene ma – questa volta – Carofiglio non riesce a tenere fede a tutte le promesse. La perizia della scrittura, il modo in cui sceglie le parole, la capacità di mantenere un doppio registro parlando ora in prima ora in seconda persona (escamotage narrativo che gli consente di “osservare” il proprio personaggio), i salti temporali tra passato e presente, la capacità di approcciare un tema come quello dei “confini” (il bordo, appunto, delle cose) che ognuno si porta dentro – i confini delle proprie paure, dei sogni infranti – che possono essere scardinati da un momento all’altro per un evento improvviso che ci travolge nella nostra quotidianità, ecco tutto questo ci dà il senso del talento indiscusso di Carofiglio, è la “cifra” di questo lavoro. Eppure il romanzo non riesce a convincere del tutto.
La vicenda comincia con un caffè al bar, una notizia di cronaca nera sul giornale, un nome che riaffiora dal passato ed Enrico Vallesi, romanziere fallito dopo il successo del suo primo e unico romanzo, è costretto a confrontarsi con la propria memoria. Decide allora di salire su un treno e tornare nella città dove è cresciuto, e dalla quale è scappato molti anni prima. Il ritorno a Bari è un ritorno ad un’adolescenza inquieta vissuta negli Anni di Piombo (su cui, però, Carofiglio preferisce non dare giudizi di alcun tipo), all’amore per Celeste – giovane e appassionata supplente di filosofia – e alla pericolosa attrazione per Salvatore, compagno di classe già adulto ed esperto della vita, anche nei suoi aspetti più feroci.
“Il bordo vertiginoso delle cose” si fa allora romanzo di formazione alla vita e alla violenza, racconto sulla passione per le idee e per le parole, storia d’amore, riflessione sul successo e il fallimento, o forse dovremmo dire “tenta di farsi” dato che ciò che rimane al lettore è una sensazione di sospensione, di non concluso o concluso troppo frettolosamente (come nel finale).
Si va avanti per poco più 300 pagine convinti che il ritmo stia per cambiare, che tutto troverà un senso e sicuramente Carofiglio è bravo a fare in modo che si crei questo clima di attesa ma l’attesa, appunto, non viene ripagata. Tra Enrico (giovane e adulto) e il lettore non si crea un coinvolgimento emotivo. Che lo stile abbia preso il sopravvento?