
A ventuno anni dalla strage di Capaci, in cui persero la vita il giudice Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e gli uomini della scorta, Vito Schifani, Antonio Montinaro e Rocco Di Cillo, sono ancora aperte le indagini su quell’attentato. A condurle è la procura di Caltanissetta che il mese scorso ha notificato altre otto ordinanze di custodia cautelare firmate dal gip del tribunale nisseno per quei fatti. Le nuove ipotesi investigative tracciano anche un quadro entro il quale abbia deciso di muoversi l’ideatore della strage, Totò Riina, ed è sconcertante.
Secondo i giudici della procura di Caltanissetta, con l’avallo del gip nisseno Francesco Lauricella, la strategia di Riina sarebbe ispirata a quella utilizzata dai narcos colombiani. Nell’aprile del 1990 infatti a Medellin i narcotrafficanti si resero autori di una strage simile a quella che colpì il giudice antimafia e la sua scorta. I colombiani infatti imbottirono di tritolo un’autobomba che fecero esplodere al passaggio del corteo di auto dei poliziotti antinarcotici. Durante lo stesso anno in Colombia esplosero diciotto bombe che provocarono novantatré morti e quaranta feriti. Avvenimenti internazionali che secondo i giudici fecero abbandonare la prima idea venuta a Cosa Nostra.
In un primo momento la mafia avrebbe pensato di sparare a Falcone mentre era a Roma. Un piano troppo rischioso e abbandonato per far spazio all’ipotesi tritolo, già utilizzata in altre occasioni. Nell’ottantatré e nell’ottantacinque la mafia organizzò gli attentati ai giudici Rocco Chinnici e Carlo Palermo proprio piazzando delle autobombe imbottite di tritolo. Inoltre negli anni ottanta la stessa tecnica veniva usata anche durante la guerra civile in Libano. Una tecnica da guerra che, secondo i giudici, Cosa Nostra scelse per la sua efficienza e utilizzò per dichiarare guerra allo Stato e costringerlo a trattare.